DIVORZIO DALL’ECONOMIA CINESE? “COSE AMERICANE” DICE LA GERMANIA

DI PIERO ORTECA

REDAZIONE

 

 

Il centenario Henry Kissinger, ricevuto da Xi Jnping: «La relazione Usa-Cina è di vitale importanza per la pace e la prosperità di entrambi i paesi e del mondo». Gli Usa sì, o come vogliono, e gli altri no? Commercio estero italiano verso la Cina +14,9% e noi dovremmo strappare l’accordo sulla ‘Nuova via della seta?’. Roma tace, Berlino no

Roma tace, Berlino no

La Germania continua a fare affari con la Cina, aggirando con disinvoltura tutte le esortazioni americane (e quelle dell’Unione Europea) a frenare il suo business. Il Cancelliere Scholz ha trovato la formula magica per mettere tutti d’accordo. La nuova strategia di sicurezza tedesca, infatti, sulla carta prevede una politica di ‘derisking’ economico (cioè di abbassamento del rischio) con Pechino. In pratica, si tratterebbe del ‘disaccoppiamento’ voluto da Biden, in versione Von der Leyen ormai sempre al seguito. Allentare velocemente i legami commerciali con i cinesi, ‘per non dipendere da loro’.

Politichetta servile

Ma il premier socialdemocratico dell’opulenta Germania (che per adesso, però, perde colpi), con un gioco di prestigio ha salvato sia l’onore del Paese che i suoi cospicui interessi finanziari. Così, molto semplicemente, «la nuova strategia sulla sicurezza nazionale» recepisce, col ‘copia e incolla’, le direttive di Bruxelles, ma, quando si tratta di applicarle, se ne lava le mani. Scholz dice che il governo fa la sua parte ‘avvisando e consigliando’, ma che spetta alle imprese regolarsi di conseguenza. Cioè, tradotto dal politichese, significa «ognuno faccia ciò che più gli conviene».

Coalizione verde pallido

E le grandi rivendicazioni libertarie dei partiti della coalizione che governa a Berlino? Liquefatte, come un ghiacciolo in questa giornate. Scrive il sempre rigoroso ‘South China Morning Post’ di Hong Kong: «La strategia è un compromesso tra i tre partiti che governano (Socialdemocratici, Verdi e Liberaldemocratici), consapevoli della necessità delle imprese tedesche di diventare principali partner commerciali del Paese asiatico in un momento di sofferenza economica». Una valutazione che, naturalmente, giudica come di facciata, le accuse rivolte a Pechino, contenute nel documento ‘strategico’. Intendiamoci, alcune sono reali e comprovate, come quelle relative alla situazione dei diritti umani nello Xinjiang o in Tibet, o allo status ibrido di Hong Kong.

“Ma altre puzzano decisamente di ‘coartazione geopolitica’, perché impongono, a una potenza come la Germania, una visione dei rapporti con la Cina che è essenzialmente americana”.

Coartazione geopolitica

Pechino non può essere definita, a priori (nella lettura Von der Leyen), «una rivale sistemica dell’Europa nella sfera politico-economica». Così come lascia perplessi il richiamo «a una potenziale minaccia alla stabilità mondiale, a causa della sua assertività militare nei mari della Cina e nello Stretto di Taiwan». Questa è, semmai, una valutazione più consona per il Dipartimento di Stato Usa, piuttosto che per la Commissione europea. Certo, il momento non è favorevole e la globalizzazione, come suggeriscono gli analisti geopolitici, è sottoposta a un vero e proprio fuoco incrociato di fattori che continuano a metterla in crisi. La pandemia, l’alterazione della catena di approvvigionamento produttivo, l’invasione russa dell’Ucraina, la caduta della domanda e poi l’improvvisa fiammata della ripresa, accompagnata da un’inflazione devastante, hanno distorto le relazioni commerciali internazionali.

Titani e nani

Lo scontro titanico tra Stati Uniti e Cina ha fatto il resto. Xi Jinping ha commesso un errore formidabile, con la politica ‘Zero Covid’, arrivando quasi a congelare l’export cinese. È stato questo scivolone che ha consentito a Biden di ‘certificare’, nei fatti, la logica del ‘disaccoppiamento’. «Se si ferma la Cina si ferma la fabbrica del mondo». Giusto. Quindi, diversifichiamo. Ma senza guerre sante e senza dare a questo processo, squisitamente commerciale, giustificazioni ideologico-politiche che sembrano solo alibi di facciata. Storicamente, il ‘disaccoppiamento’ dalla Cina è stato, prima di tutto, una reazione americana, per la supremazia economica planetaria e, solo successivamente è diventato un’emergenza generale. Con cui tutti devono fare i conti, perché si tratta di ricostruire catene di scambi commerciali e reti di investimenti produttivi ex novo. Trovando opportunità e mercati alternativi.

Germania in crisi tira dritto

L’ultima inchiesta statistica della Camera di Commercio tedesca, in Cina, dimostra come le imprese di Berlino siano sempre presenti, anche se aumenta la sfiducia. Le pressioni politiche, le minacce di crisi internazionali ancora più gravi, l’incipiente recessione, evidentemente giocano un ruolo importante. Eppure, nonostante il ‘bombardamento politico’, che arriva da Washington e da Bruxelles, ancora il 55% delle imprese tedesche si dice convinto di volere continuare a investire in Cina. E la Germania tira per il suo, senza farsi condizionare più di tanto da Biden. Il 34% degli investimenti europei totali, in Cina, per capirci, è rappresentato solo da quattro aziende tedesche: Volkswagen, Daimler, BMW e Basf. A Berlino guardano lontano e pensano che una partnership economica con la Cina sia vantaggiosa.

“Parlano chiaro e propongono investimenti mirati, politiche di sostegno alla domanda interna (la Banca centrale lo sta già facendo tagliando i tassi) e una massiccia semplificazione delle procedure burocratiche. Disaccoppiamento? No, collaborazione sulla base di interessi comuni. Una formula che non fallisce mai”.

 

Articolo di Piero Orteca, dalla redazione di

22 Luglio 2023