LA MORTE DI GIULIA, QUALI LE COLPE?

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Più passano le ore e meglio si delineano i contorni di quella immane tragedia che ha visto Giulia Cecchettin uccisa a calci, pugni e coltellate dall’ex fidanzato, al quale, per sconfinato altruismo e pari ingenuità, aveva teso una mano amica per lenirne le sofferenze del partner ripudiato.

Tutto porta alla premeditazione. Il procurarsi il denaro per fuggire, il coltello per uccidere, i sacchi per occultare il cadavere. È chiaro che aveva progettato di ucciderla.

E sulla base delle prime risultanze, ne aveva avuto di tempo per capire lo scempio che stava compiendo su quel corpo, perché pare l’abbia massacrata a più riprese. Una sorta di tortura finita con la morte. Non c’è alcun dubbio: ha fatto tutto con piena lucidità e fredda determinazione, fregandosene del terrore e dello straziante dolore che lei provava.

E nemmeno stiamo parlando di un pazzo. Il pazzo non medita, tanto meno premedita. Commette un errore chi crede che gli verrà riconosciuta una qualche infermità mentale, che finirebbe per risparmiargli un bel po’ di galera.

Un errore che deriva dal rifiuto di ricondurre delitti particolarmente efferati al concetto di normalità, o meglio, di sanità mentale. Qui non si parla di follia, ma di malvagità, che il più delle volte non si manifesta perché sotterranea, ma che quando emerge non scalfisce minimamente la capacità di intendere e di volere.

Poi, sull’onda di quanto detto dalla sorella di Giulia, chi ha compiuto quello scempio sarebbe figlio di una cultura patriarcale. Quel soggetto avrebbe quindi agito non con piena autonomia e consapevolezza, ma perché spinto, o quanto meno condizionato, da una società malata. Un formidabile assist per i suoi avvocati difensori. Non scandalizziamoci se poi i giudici lo condannano ad una pena inferiore a quella sperata.

Né noi maschi dovremmo sentirci colpevoli di quanto accaduto. Colpevolizzare il genere maschile per un femminicidio sarebbe peggio che pretendere da ogni siciliano di costituirsi per un delitto di mafia. Personalmente ritengo di non avere nulla, ma proprio nulla a che vedere con quell’individuo malvagio.

In questo dramma vi è un solo colpevole: lui.

Ma non si può non rimanere perplessi per quanto sentito da Nicola Turetta. Da mesi il figlio andava manifestando chiari segni di cedimento, ossia da quando Giulia aveva deciso di lasciarlo. Si è isolato, ripetendo di non poter più vivere senza di lei, di volersi suicidare. Balle. Non si è suicidato per i sensi di colpa per ciò che ha fatto, figuriamoci se si suicidava per amore quando lei era ancora viva.

Ma il padre non si sarà allarmato per la fragilità del figlio? In effetti, chi prospetta il suicidio perché la propria partner lo ha lasciato, è chiaramente una persona fragile.

Ma la fragilità non è sinonimo di bontà. E non è affatto incompatibile con l’aggressività e neppure con la ferocia. Chi è fragile ben può esplodere in manifestazioni di odio. Per questo il padre, che conosceva Giulia, non appena sentito scattare l’allarme rosso, avrebbe potuto e dovuto allertarla dicendole: mio figlio sta sbroccando, lascia stare i tuoi altruistici propositi di amicizia e pensa a te stessa.

Ma questo, evidentemente, non è accaduto.