IL TURISMO SUL SALENTO

DI GIANCARLO SELMI

Giancarlo Selmi

 

Sul turismo nel Salento qualcosa va detto. Pertanto, unirò il mio parere alle vagonate di pareri letti in questi giorni.

Premetto che le cose più intelligenti e sicuramente più interessanti, le ho lette in post pubblicati da Alberto Siculella e Mario Caezza. Due amici che, spogliandosi della consueta e facile tifoseria, hanno cercato di analizzare ciò che sta accadendo sulla ed alla nostra terra. Mi asterrò dall’entrare nel merito del “turismo spennapolli” che, sempre più, sta caratterizzando il Salento; neanche sui guasti che questo turismo senza programmazione, regole e servizi sta facendo. Cercherò di unire una modesta riflessione sul richiamo alle regole del “mercato”. Regole richiamate da un signore che, mi dicono, dichiara di essere “cinquestelle”, in un post che sembra scritto dalla Santanchè. Non credo sia opportuno dare peso alla cosa, né nominarlo, mi limiterò a dire “cose da pazzi”.

Premettendo che considero il turismo alla stregua di mille altre cose, positive quando sostenibili, debbo tuttavia continuare a premettere che, a parte la necessaria sostenibilità, il turismo, in particolare il turismo, è cosa buona e giusta quando apporta benessere e sviluppo. E, in termini macroeconomici, quando apporta, non il classico indice vuoto e troppe volte usato del PIL, ma l’aumento del potenziale potere d’acquisto per tutta la comunità coinvolta. Ovvero, l’aumento parcellizzato dei redditi di tutti gli attori che vi partecipano. Non l’accumulazione di denari da parte di squali che fanno soldi a palate con lo sfruttamento di concessioni pubbliche di spiagge, trasformate in carissimi resort di lusso, con pagamento allo stato di risibili canoni di concessione.

“Le nostre spiagge sono più strette di quelle della riviera romagnola, vanno offerte solo a chi se le può permettere” ha dichiarato ieri al Corriere del Mezzogiorno Vito Vergine, patron delle cosiddette Maldive del Salento. Con quel “nostre” cosa intende il sig. Vergine? Non andrebbe spiegato a questo signore che la proprietà di quelle spiagge è pubblica e che a lui ne è stato concesso l’uso? Il Twiga di Forte dei Marmi, che Vergine cerca di scimmiottare, incassa 6 milioni di euro a stagione, pagando una concessione di 15.000 euro all’anno. Quanto paga lui per sentirsi proprietario di qualcosa che non è suo? Ma soprattutto: quanto paga i suoi lavoratori? Quali sono le condizioni di lavoro? Queste sono le questioni che andrebbero poste a chi ha deciso che un tratto di costa, a lui affidato, deve essere riservato a chi “se lo può permettere”. E se il richiamo è al mercato, il sig. Vergine partecipi a una licitazione pubblica per la concessione e paghi allo Stato, quindi a tutti, compresi quelli che “non se lo possono permettere”, un canone giusto e direttamente proporzionale alle ricchezze che accumula ogni anno. Però no, il sig. Vergine ama il “mercato” quando gli gonfia le tasche, non lo ama quando impone un principio, peraltro fondativo dello stesso concetto di “mercato”: quel principio chiamato “concorrenza”.

E poi, come possono godere della propria terra quelle famiglie che, pur proprietarie per diritto di nascita di spiagge e bellezze, non hanno i mezzi per poterlo fare? Quando vengono loro sottratti, dalla cupidigia dei privati, chilometri di demanio? Ricordando che il Salento è uno dei posti in Italia con meno spiagge libere. E come spiegare ad un disabile che gli toccano luoghi desertici non serviti, senza discese e passerelle di accesso (questo non è colpa di Vergine, ovviamente, ma ricade nel concetto di pubblico e del “non potersi permettere” null’altro) e, nel migliore dei casi, perché non privati, vere e proprie discariche? O tutti i disabili si possono permettere il Twiga, o la brutta copia dello stesso situata in un posto chiamato “Maldive del Salento” la cui indubbia bellezza si trova a gareggiare con la pretenziosità?