L’ULTIMA VOLTA CHE VIDI AYRTON SENNA

DI MARINO BARTOLETTI

 

Il 30 aprile di trent’anni fa fu l’ultima volta che vidi Ayrton Senna.
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Lo salutai nel paddock da pochi metri di distanza: ricambiò con la gentilezza di sempre, scosse la testa quasi per scusarsi, certamente non aveva voglia di parlare. Era già morto Roland Ratzenberger e lui si era appena recato sul punto dell’incidente: forse per capire, forse per pregare. La cosa lo aveva segnato in maniera enorme, facendolo entrare in quel loop di tormenti che accompagnarono le sue ultime 24 ore di vita. Probabilmente aveva già deciso che avrebbe corso con la bandiera austriaca sotto al sedile: ovviamente assieme a quella brasiliana.
Ci conoscevamo da dieci anni esatti: da quando ci ritrovammo ospiti nello studio televisivo di un’emittente bolognese dove si scambiavano opinioni oltre che col conduttore, Nando Macchiavelli, anche al telefono con i telespettatori. Eravamo tre ospiti. Io ero… il più famoso, perché conducevo il “Processo del lunedì”, lui (accompagnato dal suo fraterno e leale amico, il fotografo Angelo Orsi ) era noto solo al pubblico degli appassionati e infatti non ricevette neanche una telefonata e se ne stette in disparte per tutta la puntata: il terzo era un bravo collega che si occupava del Bologna e che venne preso a (innocente) bersaglio da chi era arrabbiato per il fatto che la squadra fosse in Serie C. Alla fine della trasmissione Ayrton venne da me, e non avendo capito bene chi io fossi, mi chiese se poteva stringermi la mano. Orsi sghignazzando mi diede una pacca e mi disse (giustamente): “Fra poco tempo sarai tu a chiedergli l’autografo”. Una scena surreale della quale in effetti, pochi anni dopo, io e Ayrton, campione del mondo, sorridemmo dietro le quinte della consegna dei “Caschi d’Oro”.
Il primo maggio ero in diretta per l’ultima puntata della prima edizione di “Quelli che il calcio”: lo scudetto era già stato vinto dal Milan che in quel pomeriggio perse in casa contro la Reggiana. Aria di festa, comunque: da ultimo giorno di scuola. Noi su Rai 3, il Gran Premio di Imola su Rai 1. Io ovviamente stavo seguendo tutto su uno dei miei tanti monitor che avevo davanti. Quando Mario Poltronieri chiuse la sua telecronaca, la nostra rimase l’unica trasmissione sportiva in onda. Ero già stato informato che l’elicottero che si era alzato dall’autodromo per andare all’Ospedale Maggiore aveva trasportato un corpo intatto, ma senza vita. Mi venne chiesto di dire una bugia. Chiudemmo alle 17,30. Alle 18,40 la dottoressa Fiandri, primario del reparto di Rianimazione, annunciò non senza emozione la sua morte. E quel punto, assieme allo sgomento, nacque la leggenda: alla quale è inutile – nemmeno oggi – aggiungere parole superflue.
Lo pianse il Mondo. Sul jumbo della Varig che lo riportò a casa vennero tolte tre file di poltrone della prima classe per sistemare la sua bara che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di mettere in una stiva.
Per il suo funerale si fermò il Brasile: lo andarono a salutare cinque milioni di persone. Sulla sua tomba a San Paolo, nel cimitero della collina di Murumbi c’è scritto: “Nessuno mi può separare dall’amore di Dio”. E sicuramente neanche degli uomini.
Una domanda purtroppo senza controprova: è stato il più grande pilota di tutti i tempi? Di quelli che ho visto in cinquant’anni di Formula Uno, a mio parere, assolutamente sì!