I MORTI DI REGGIO EMILIA

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

È la cronistoria, dal ‘48 ad oggi, dei “caduti” – operai, braccianti, studenti, sindacalisti – uccisi dai fascisti, dalle forze dell’ordine e dalla mafia. Una scia di vite spezzate.

È il 7 luglio del 1960 quando si consuma la strage di Reggio Emilia.

Nel corso di una manifestazione sindacale cinque operai vengono uccisi a fucilate dalla polizia. Un fatto di sangue sconvolgente.
Sono i giorni del governo Tambroni, un monocolore Dc, in piedi con i voti dei fascisti di Almirante. Sono passati solo 15 anni dalla caduta di Mussolini. Un’ alleanza oscena che provoca indignazione e proteste. Ovunque si scende in strada.
Tambroni concede alle forze dell’ordine la facoltà di aprire il fuoco in caso di emergenza. Come ai tempi di Bava Beccaris.

Dalle parole ai fatti.

Vengono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto e 39 di pistola.
La sera del 6 luglio la CGIL reggiana proclama lo sciopero cittadino. La prefettura proibisce manifestazioni e assembramenti. L’unico spazio consentito, è la Sala Verdi, che conta appena 600 posti a sedere. Il giorno dopo nelle strade, nonostante i divieti, si contano oltre 20.000 manifestanti. 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decidono di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti.
Alle 16.45 del pomeriggio una carica di un reparto di 350 poliziotti al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico, investe la manifestazione pacifica. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica.
Incalzati dalle camionette, dai getti d’acqua e dai lacrimogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, per poi barricarsi letteralmente dietro ogni sorta di oggetto trovato, seggiole, assi di legno, tavoli del bar e rispondendo alle cariche con lancio di oggetti. Respinte dalla disperata resistenza dei manifestanti, le forze dell’ordine impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare. (Anpi Reggio Emilia)
Sul selciato cadono senza vita: l’operaio 22enne Lauro Farioli, l’operaio 19enne Ovidio Franchi, il pastore 41enne Marino Serri (partigiano della 76^ SAP), l’operaio 36enne Afro Tondelli (partigiano della 76^ SAP) e l’operaio 39enne Emilio Reverberi (partigiano e commissario politico nel distaccamento “G. Amendola). Sono tutti iscritti al PCI. Per le cronache sono sedici i feriti “ufficiali”, quelli portati in ospedale perché ritenuti in pericolo di vita.

Il Paese è sotto shock.

La Cgil proclama lo sciopero generale per il giorno successivo che blocca il paese.
La polizia spara e uccide ancora. A Palermo l’8 luglio muoiono 4 persone fra cui un ragazzino di 15 anni. 36 i manifestanti feriti da proiettili, 400 i fermati, 71 gli arrestati. I morti saranno 11 alla fine di quei giorni di lotta. E’ giusto ricordare che prima delle sparatorie dei giorni di luglio vi fu un morto a Catania.
Mentre il 30 giugno a Genova la generazione delle “magliette a strisce” si scontra con la polizia per impedire che si tenesse il congresso del “Movimento sociale” nella città medaglia d’oro della Resistenza e simbolo delle insurrezioni antinaziste.
Ecco la testimonianza di Pier Paolo Pasolini: <<Ho la sensazione netta che a lottare non siano più dei dimostranti italiani e una polizia italiana, ma due schiere quasi estranee: la popolazione di una città che protesta contro delle truppe occupanti. Cioè che le forze dell’ordine agiscano quasi come l’esercito di una potenza straniera, installata nel cuore dell’Italia>>.
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I morti di luglio moltiplicheranno le proteste degli antifascisti, inducendo alla fine Tambroni a rassegnare le dimissioni.
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Per i fatti di Reggio Emilia ci sarà un processo a carico di un vice-questore e di un poliziotto.
Nonostante le prove schiaccianti, uno verrà dichiarato non colpevole e l’altro rilasciato per insufficienza di prove. Nessuno ha sparato.
È la regola.