TRANSFORMERS

DI MARIO PIAZZA

Mario Piazza

 

Dedico molto tempo allo studio dei fenomeni sociopolitici che mi circondano, mi piace avere un’opinione solida e conoscere i fatti che l’hanno determinata. Di solito ci riesco ma quando non raggiungo la piena convinzione continuo a studiare cercando di tenere la mente il più aperta possibile.
Non rinuncio mai ma per la protesta degli agricoltori sono costretto a fare un’eccezione per due ragioni precise.
La prima è che si tratta di una questione complicatissima che richiederebbe competenze che non ho e la seconda è che la mia mente tende a chiudersi perché si tratta di una categoria che mi sta pregiudizialmente antipatica. Almeno l’antipatia la posso spiegare, ho messo in ordine le idee ieri guidando a passo d’uomo qui a Tarquinia mentre una interminabile colonna di trattori imbandierati sfilava nella corsia opposta emettendo puzza e rumore come un piccolo esercito di transformer fuori controllo.
Un fattore di antipatia è che non sopporto la retorica del lavoro duro quando essa proviene da imprenditori che hanno scelto liberamente la propria professione e che da essa sembrano trarre profitti che vanno dal ragionevole al molto sostanzioso. Metto quel vittimismo accanto a quello di altri lavoratori che fanno lavori anche più duri che non hanno potuto scegliere e che percepiscono salari indegni, e subito mi girano le balle.
Un altro elemento è questo fasullo rapporto di simbiosi con la natura che viene ipocritamente sbandierato. La simbiosi è tale se produce un vantaggio reciproco come per lo squalo e le sue remore o il celeberrimo paguro con la sua attinia. Se il vantaggio è di una sola parte si chiama sfruttamento, vale per i campi inzuppati di fertilizzanti e vale per gli animali da allevamento per non parlare dei poveri selvatici massacrati ogni anno dalle loro doppiette.
Un terzo fattore di antipatia è la mistica di cui gli agricoltori si ammantano in quanto produttori di una cosa nobile e indispensabile come il cibo, come se esso fosse destinato agli smunti bambini dell’Africa e non ai magazzini delle multinazionali della grande distribuzione. Producono cibo, ma se producessero automobili o bombe a mano sarebbe la stessa cosa.
Scusandomi con i pochi agricoltori che in queste cose credono veramente l’elemento comune a tutto il comparto agro-alimentare sembra essere l’ipocrisia, proprio quella che tra le nequizie umane sopporto di meno.