FABIO FAZIO, L’ANTIEROE PER ECCELLENZA

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Di lui la miglior definizione la diede anni fa Beppe Grillo: «un impiegato». In effetti, Fabio Fazio incarna alla perfezione la figura del mero esecutore, l’opposto di quello che dovrebbe essere un giornalista. L’impiegato esegue fedelmente le direttive dei suoi superiori, ai quali soltanto è tenuto a rispondere.

Il giornalista risponde soltanto alla collettività, informandola sui fatti di interesse pubblico nella maniera più obiettiva possibile. Per il giornalista avere dei padroni è qualcosa di deontologicamente inconcepibile.

Sembrerà strano, ma Fazio in teoria sarebbe un giornalista. Invece, anche ieri sera ha svolto più che egregiamente il proprio lavoro da impiegato con un’intervista in ginocchio alla icona emergente del mainstream, Gino Cecchettin, il padre della povera Giulia, che purtroppo non possiamo escludere a priori che lo stesse in qualche modo ascoltando. Obiettivo: lustrarne la figura per contrastare la macchina del fango avviata sui social dopo le imbarazzanti chat trovate nel suo profilo twitter.

E quale modo migliore di ripulire la sua figura dopo quegli imbarazzanti messaggi che hanno intasato il mondo digitale? Non chiedergli nulla di quei messaggi, ovviamente. Ma soltanto sottolineare i punti più toccanti del discorso letto al funerale della figlia.

E pensare che quelle chat hanno un indubbio rilievo pubblico. Non hanno nulla, ma proprio nulla di privato e personale. Perché se è vero che essere un porcone appartiene alla sfera sessuale, che è quella più privata, intangibile per antonomasia, è altrettanto vero che diventa di straordinario interesse pubblico quando spiana i principi sui quali un individuo ha fatto leva per imbastire la sua dimensione pubblica.

Fabio Fazio, in quanto giornalista, avrebbe dovuto chiedergli conto di quei messaggi, proprio per ristabilire il corretto, reale rapporto tra Gino Cecchettin e la collettività, che va basato soltanto sulla verità, non sull’opportunismo. Perché quei messaggi mal si conciliano con i presunti ideali di chi è diventato un personaggio pubblico convincendo la gente di voler rigirare come un calzino la mentalità maschilista e patriarcale che alberga in noi maschi e che ci rende, nessuno escluso, potenziali femminicidi.

Ma è comprensibile che l’antieroe Fazio abbia sorvolato. Che cosa avrebbe mai potuto rispondere l’ingegnere informatico Gino? Ripetere pubblicamente che è stato hackerato? Che i suoi hater sono oggi riusciti persino a modificare la data di quei messaggi compromettenti? Se può essere credibile, entro certi limiti, essere hackerati nel presente, soltanto le «legioni di stolti» di echiana memoria potrebbero pensare che un hacker avrebbe l’anno scorso, due, tre, dieci anni fa previsto che Gino, il macho di twitter autodefinitosi «alto, bello, divertente e soprattutto che scopa da Dio», sarebbe diventato l’odierno fustigatore pubblico dell’universo maschile, in concomitanza con quanto di peggio possa capitare a un padre.