LO SQUADRISMO DELLE ONG

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Salvare vite in mare e interrompere con tracotanza la proiezione di un film non paiono comportamenti perfettamente assonanti. Ma è quanto accaduto venerdi 25 novembre al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, durante la proiezione del film «L’Urlo» del regista Michelangelo Severgnini.
Un film che racconta il traffico degli esseri umani dalla Libia, quelli che possono permettersi di comprare un passaggio in Europa a bordo delle navi di quelle Ong che pattugliano h24 il Mediterraneo, e i cui attivisti hanno riempito di accuse e insulti il regista, interrompendo la proiezione del film.
«Abbiamo tollerato 20 minuti di film», hanno giustamente urlato gli attivisti delle Ong, padroni del Mediterraneo, figuriamoci di una sala comunale. Non hanno gradito già i primi contenuti, ossia le testimonianze degli immigrati che accusano le Ong di raccogliere quei disperati che hanno pagato lautamente i trafficanti, senza preoccuparsi di chi rimane a terra nelle grinfie dei miliziani libici, e che non hanno nemmeno la possibilità di tornare nei loro Paesi di origine, dopo aver rinunciato al sogno europeo, perché i libici non li fanno andare via.
Gli attivisti delle Ong contestano soprattutto quest’ultimo aspetto della ricostruzione. Gli immigrati custoditi in quelli che solo un cultore degli eufemismi definirebbe centri di accoglienza, sono liberi di ritornare a casa quando vogliono, dicono gli attivisti. Strano però che tra i 700 mila che cercano un taxi per l’Europa, una buona parte sono lì da anni, lavorando per un salario certamente inferiore a quello che percepivano nel loro Paese, e che spesso, tra violenze e soprusi, non riesce nemmeno a garantire la loro sopravvivenza.
Ammettere che a quei poveracci viene impedito di ritornare nel loro Paese, dimostrerebbe che le ONG se ne fregano del destino di un numero di persone di gran lunga superiore a quello delle vite salvate in mare. E che comunque la loro attività fa molto comodo ai trafficanti libici, che non solo guadagnano cifre enormi spingendo nel Mediterraneo i gommoni sgonfi poi intercettati dalle navi Ong a poche centinaia di metri dalla riva. Ma grazie alle stesse Ong che alimentano via social il sogno europeo, sfruttano nei lager appositamente allestiti una enorme forza lavoro, fino a quando quei disperati non riescono ad ottenere dalle loro famiglie il denaro sufficiente per essere collocati sui gommoni.
Insomma, le Ong tengono molto alla narrazione che non ci sono trappole in Libia, e che chiunque vuole venire in Europa si accomodi, ma con il portafoglio gonfio.
Infine, mi ha molto stupito la reazione verbale di chi si è scandalizzato per il comportamento degli attivisti delle Ong al Festival. Hanno parlato di inammissibile censura.
Ma quale censura? La censura è l’atto di un potere pubblico, che impedisce una manifestazione di pensiero. Questo è un comportamento da squadristi, che realizza il reato di violenza privata, previsto dall’art. 610 del codice penale. Altro che censura!