IN UNO STATO LAICO NON SI FESTEGGIA IL RAMADAN

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Chiusa la scuola primaria Iqbal Masih di Pioltello, nell’hinterland milanese. Identica scelta per l’Università degli Stranieri di Siena. Ma nei fatti, la lista appare più lunga. Ieri migliaia di studenti non musulmani sono stati lasciati a casa in concomitanza di una festività con cui non hanno mai avuto nulla a che vedere.

Ma una simile iniziativa è consentita dal nostro ordinamento?

In Italia vige il principio di laicità dello Stato. Il che non significa che lo Stato deve fregarsene delle religioni, ma che al contrario deve garantire ai credenti il medesimo diritto di professare la propria fede. Il principio è sancito all’art. 8 della Costituzione: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge».

Ma la libertà che l’art. 8 vuole anche garantire è quella di stipulare «Intese» con lo Stato italiano. Intese che consentirebbero ad ogni confessione religiosa una stabile presenza all’interno di istituzioni come la scuola, le Forze Armate, le carceri, gli ospedali, garantendo così ai propri fedeli l’assistenza spirituale; nonché il riconoscimento di festività religiose, che giustificherebbe l’assenza dei fedeli dalla scuola o dal lavoro.

Di Intese ne sono state stipulate tante a partire dal 1984, quando furono modificati i Patti Lateranensi, con l’abolizione del principio della «religione Cattolica Apostolica e Romana come sola religione dello Stato»: la Tavola Valdese, le Chiese Cristiane Avventiste del 7° Giorno, la Congregazione dei Testimoni di Geova, l’Unione delle Comunità Ebraiche, l’Unione Buddista Italiana, la Chiesa Evangelica Luterana d’Italia, fino ad arrivare in tempi recenti alla Chiesa d’Inghilterra, tanto per citarne alcune.

Per le confessioni religiose che non optano per l’Intesa, rimane quel limbo rappresentato dalla Legge n. 1159 del 1929, tuttora in vigore, fatta emanare da Mussolini quasi a voler rimarcare l’abisso che le separa dalla religione cattolica: ogni confessione religiosa deve comunicare al Governo i nomi dei ministri di culto per la loro approvazione. E nel contesto di tale legge, l’unica cosa consentita è celebrare matrimoni con effetti civili. Da scordarsi l’assistenza spirituale, insieme al riconoscimento di qualsiasi festività.

L’Islam non ha mai stipulato intese con lo Stato italiano, né sembra avere alcuna intenzione di farlo. Di più. L’Islam non ha nemmeno chiesto il riconoscimento previsto dalla 1159. La conseguenza è che oggi ogni associazione di fedeli musulmani è dal diritto italiano considerata come una qualsiasi associazione di caccia e pesca. I noti fatti di Monfalcone, dove il sindaco ha disposto la chiusura di molti centri adibiti a preghiera, derivano proprio dalla circostanza che in mancanza del riconoscimento previsto dalla 1159, o di un’Intesa, nessun edificio può essere adibito all’esercizio del culto.

In realtà, un riconoscimento sulla base della 1159 ha riguardato soltanto il Centro Culturale Islamico d’Italia, ovvero la Grande Moschea di Roma, chiesto al solo scopo di consentire la preghiera senza patemi d’animo. In effetti, a nessun Imam è venuto in mente di chiedere al Governo italiano l’autorizzazione a celebrare matrimoni con effetti civili.

E il motivo è presto detto. Nel celebrare il matrimonio, l’Imam dovrebbe leggere ai nubendi gli articoli 143, 144 e 145 del codice civile: con il matrimonio «il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri»; l’indirizzo della vita familiare, anche con riferimento alla educazione della prole, «spetta a ciascuno dei coniugi»; e in caso di disaccordo «ciascuno dei coniugi può chiedere l’intervento del giudice». Norme disconosciute da qualsiasi Imam, in quanto assolutamente incompatibili con i principi dell’Islam, intrisi di patriarcato.

Oggi, funzionari statali impongono la chiusura delle scuole in osservanza di una festività dell’unica confessione religiosa che rifiuta sistematicamente ogni confronto normativo con lo Stato italiano. Non c’è altro da aggiungere.