MORO, COSSIGA E LA P2

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, si è detto tutto o troppo poco. Fate voi. Report di Sigfrido Ranucci in queste settimane ha rilanciato la teoria delle verità nascoste. Alludendo a trame torbide. A interessi privati. A macchinazioni di entità in combutta con le Br.
Allo stato dell’arte ci sono 4 processi e una montagna di anni di galera per i protagonisti di quell’evento.
Non sarò certo io a dipanare i dubbi se a sparare non furono solo le Br. O se la prigione non era in via Montalcini 8.
A distanza di 46 anni, a mio avviso, la domanda delle domande resta sempre la stessa: Moro poteva essere salvato?
In un Paese “normale” la risposta è: SI. Ma la classe politica di allora non fece niente per salvarlo. Anzi. Per capirlo basterebbe osservare la carriera di un uomo su tutti: quella di Francesco Cossiga.
È lui – nei 55 giorni del sequestro del presidente della Democrazia Cristiana – il dominus dell’intera vicenda.
Come ministro degli Interni è lui a interloquire con gli spioni nostrani/americani. È lui ad affidare ad uno stuolo di affiliati alla P2, il compito di trovare Moro sano e salvo.
Rinfreschiamo la memoria.
Generale Giuseppe Santovito, direttore del SISMI, il generale Giulio Grassini del SISDE, Federico Umberto D’Amato direttore dell’Ufficio affari riservati del Ministero dell’interno, il prefetto Walter Pelosi, direttore del CESIS, l’ammiraglio Antonino Geraci, capo del SIOS della Marina Militare, il generale Raffaele Giudice, comandante generale della Guardia di Finanza e il generale Donato Lo Prete, capo di stato maggiore della stessa, il generale dei Carabinieri Giuseppe Siracusano (responsabile per quello che riguardava i posti di blocco effettuati nella Capitale).
Si tratta degli uomini più in alto nella catena di comando della “sicurezza nazionale”. Tutti massoni.
Due giorni dopo il ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, l’11 maggio, Cossiga si dimette. Un gesto obbligato, si direbbe. Soprattutto una carriera finita. Macché.
L’anno dopo viene subito nominato primo ministro: dal 4 agosto 1979 al 3 aprile 1980 e dal 4 aprile 1980 al 17 ottobre 1980. Due volte.
Lasciato Palazzo Chigi diventa presidente del Consiglio Europeo.
Il 12 luglio 1983 viene eletto Presidente del Senato della Repubblica. Troppo poco.
Il 24 giugno 1985, diventa Presidente della Repubblica al primo scrutinio con 752 voti su 977. Un plebiscito. Resta in carica fino al 28 aprile del 1992.
Una bella carriera, per uno, che in un Paese normale, sarebbe dovuto tornare nella sua amata Sardegna a pescare saraghi.
Chissà perché?
Forse perché nell’Italia dei ricatti sapeva quasi tutto di tutti e quello che non sapeva, tutti pensavano lo sapesse.