LA DOPPIA FACCIA DI GINO CECCHETTIN

DI ANTONELLO TOMANELLI

ANTONELLO TOMANELLI

Mentre in Italia i femminicidi sembrano dilagare, arriva una doccia gelata su tutti coloro che qualche giorno fa si erano commossi nel sentire le struggenti parole del padre di Giulia Cecchettin aleggiare nella basilica di Santa Giustina. Sono venute fuori alcune chat, nemmeno tanto vecchie, in cui Gino si esprime in termini a dir poco incompatibili con quelle belle frasi lette a pochi metri dalla bara della figlia.

Sembra che per la povera Giulia non ci sia pace. Straziata da viva, umiliata da morta, non certo per colpa sua. Probabilmente non realizzerà mai di essere stata, nel corso della sua breve esistenza, circondata da persone che definire grottesche farebbe scattare il premio per l’eufemismo dell’anno.

È vero, c’è stata una spietata caccia al dettaglio compromettente, fin da quando il cadavere di Giulia è emerso nei pressi di quel fetido canale a un tiro di schioppo dalla diga del Vajont. Ma è quello che può attendere chi, dal nulla, decida di ingaggiare una lotta per diventare protagonista a tutti i costi.

Di fronte ad una simile tragedia si è fatta subito notare Elena Cecchettin, che qualificando Filippo, l’assassino della sorella, «figlio sano del patriarcato» e colpevolizzando l’universo maschile, ha aperto un dibattito potenzialmente infinito, subito attaccata per le sue presunte contiguità con ambienti satanisti.

Poi è arrivata la nonna di Giulia, l’artista. Con il cadavere della nipote sul tavolo dell’obitorio in attesa di autopsia, si fa intervistare alla presentazione del suo libro, con alle spalle le sue ben inquadrate tele. Sorride in continuazione l’artista, salvo diventare di colpo seria, quasi infastidita quando la cronista vira su Giulia.

Ma in questo podio del grottesco il primo posto spetta di diritto a Gino Cecchettin, il padre di Giulia. Non è cosa bella andare a spulciare le chat altrui. Ma se il soggetto in questione dichiara dal pulpito di Santa Giustina che «il femminicidio è il risultato di una cultura che svaluta le donne», mentre sui social scrive che «le donne con le tette piccole se compensano con il culo vanno bene»; se dichiara che «dobbiamo insegnare ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutarli ad accettare le sconfitte», mentre in chat si definisce «alto, bello, divertente, erudito e soprattutto scopo da Dio»; se considera un grave errore «difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza di chiamarlo con il suo nome», mentre si complimenta con una gnocca adescata su un social dicendole che «le calze con le righe e i tacchi mi fanno sesso anche se indossati dalla Pina Fantozzi», allora viene spontaneo affermare che un tipo del genere buffone era e buffone è rimasto.

Intendiamoci, essere un porco insipido è qualcosa che appartiene alla sfera intima di una persona, quando non sfocia in atti di molestia. Ma diverso è se quel porco insipido vuole ergersi a modello delle future generazioni nel pieno rispetto della figura femminile, marciando sul tema come fosse in campagna elettorale, con tanto di letterina scritta in memoria della povera, ignara, sfigatissima figlia e recitata in Chiesa. Quest’uomo si è guadagnato la qualificazione alle fasi finali della Champions dell’ipocrisia.

Ha detto lui stesso che quella lettera andrebbe distribuita nelle scuole di tutta Italia. Personalmente sarei d’accordo, ma ad una condizione: che vengano lette anche le sue chattate. Perché per prima cosa va insegnato il valore della coerenza.

Forse Giulia sarebbe ugualmente morta anche se avesse avuto un padre diverso. Ma un tipo del genere non sarebbe mai stato in grado di difendere la propria figlia da un femminicidio. Perché non avrebbe mai potuto capire.