DI TURI COMITO
Essendo l’Albania un paese con un piede dentro e uno fuori dalla UE (ha lo status di candidato) esso sfugge a tutta una serie di limitazioni che hanno gli altri, per esempio gli accordi di Schengen, quelli sulle quote di immigrati, quelli sull’accoglienza, eccetera eccetera.
Tipo la Turchia o qualcosa di simile.
Pertanto il dirottamento, non possiamo chiamarlo deportazione, di “carichi umani” intercettati durante le operazioni di salvataggio nel mediterraneo da navi italiane o Ong verso questo paese è possibile.
L’Italia allestirà, entro la prossima primavera, “strutture di accoglienza” (cioè campi di detenzione) dove verranno selezionati, si dice, quanti hanno diritto all’asilo e quanti no e devono essere perciò, in teoria, rimpatriati.
Come i controlli e i rimpatri e la sorveglianza e le cure per feriti e malati e la sicurezza e l’ordine pubblico (dentro e fuori i campi) e le competenze giurisdizionali saranno effettuati è un problema secondario. Una soluzione si trova anche se la materia è complessa visto che è prevista una specie di extraterritorialità per le strutture e che l’Italia eserciterà una qualche forma di controllo di polizia su queste.
Quello che invece deve essere stato largamente concordato è sicuramente il prezzo da pagare.
Che non conosciamo.
Quanto cioè viene a testa il costo della “accoglienza” in terra albanese di migranti.
Perché malgrado il premier Rami, tutto gongolante, dichiari che “se l’Italia chiama l’Albania c’è” in realtà l’espressione è da intendersi “se l’Italia paga l’Albania c’è”.
Queste cose non si fanno gratis né per amicizia né per solidarietà. Si fanno per danaro.
E non solo l’Italia chiamerà.
Presumibilmente lo farà tutta l’Unione. Se, infatti, l’esperimento riesce non c’è dubbio che sarà replicato.
È comodo e indolore il sistema (in attesa di fermare i flussi all’origine con il famoso e favoloso “Piano Mattei” di là da venire).
La differenza tra quanto già avviene con Marocco o Turchia o Tunisia (paesi pagati per trattenere sul proprio territorio i migranti che lì arrivano) è che l’Albania fungerà da magazzino di stoccaggio per i migranti che sono riusciti a salpare su una delle tante carrette del mare e che verrà, ahiloro, intercettata.
L’idea di fondo è che questo sistema dovrebbe dissuadere gli aspiranti migranti dal loro proposito ben sapendo che alle probabilità di morire affogati si aggiungono quelle di finire in un campo albanese e di restarci sine die ovvero di essere rimpatriati.
Rimpatriati per modo di dire, ché tanto nessuno o quasi viene rimpatriato.
Il che significa, dal punto di vista di scafisti e di migranti, che non cambia granché. Perché tanto, una volta arrivati in Albania, una soluzione per tirarsi fuori dai campi la si troverà: o pagando/corrompendo la sorveglianza o fuggendo o semplicemente aspettando che i centri scoppino di gente e approfittare di caos vari.
Il punto debole di questo astuto sistema è infatti proprio quello che dice Rami: ‘l’Albania è Europa”. Quindi, che sia Lampedusa o Durazzo, per un migrante poco cambia.
Ben diverso sarebbe stato se l’Italia – sull’esempio della patria dell’habeas corpus, la mitica Gran Bretagna – avesse fatto un accordo di deportazione, pardon, esportazione col Ruanda.
Anche questo paese quando l’Europa paga, c’è.
Il traffico di esseri umani non è solo prerogativa della mafia degli scafisti.
È una delle nuove frontiere del commercio internazionale.
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