DI MARINO BARTOLETTI
Cinquant’anni fa morì, appena quarantunenne (costretto su una sedia a rotelle da un incidente stradale), Abebe Bikila una delle più iconiche figure della storia di tutte le Olimpiadi: vincitore a piedi scalzi della maratona di Roma del 1960 (stabilendo il nuovo primato mondiale).
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Il grande sceneggiatore della vita inventò una vicenda di sport, di riscatto e di pace che si sarebbe raccontata nei decenni.
Bikila era figlio di un pastore poverissimo, soldato del Negus d’Etiopia, ex “schiavo di Roma”, cioè suddito di quell’Italia che anche attraverso lo sport cercò di riscattarsi dai suoi errori (e che ne onorò con gioia la grandezza sportiva e umana).
In tanti si sono chiesti, fantasticando, perché non avesse le scarpe. Semplicemente perché era stato convocato per le Olimpiadi all’ultimo momento al posto del titolare, Abebe Wakijera, che si era infortunato. E da lui aveva ereditato le Adidas messe a disposizione dalla Federazione che però non erano del suo numero.
Dopo averle provate decise che avrebbe corso scalzo (come d’altra parte faceva spesso in allenamento: anche se poi ebbe a dire che lo aveva fatto anche per ricordare la povertà della sua gente). E così nacque la leggenda.
Ai Giochi di Tokyo, quattro anni dopo, vinse di nuovo: stavolta con le scarpe. E probabilmente avrebbe vinto (realizzando una tripletta imbattibile) anche a Città del Messico nel 1968 se non si fosse fratturato una gamba poco prima dei Giochi. Al suo posto, comunque, trionfò un altro etiope suo coetaneo: il grande Mamo Wolde
Bikila era nato il 7 agosto del 1932, cioè il giorno stesso in cui si corse la maratona alle Olimpiadi di Los Angeles. Fu il primo atleta africano a vincere una medaglia d’oro.
Lo stadio nazionale di Addis Abeba porta il suo nome.
Il suo popolo lo ricorda come un Eroe.