SEPOLTO VIVO

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Oggi Julian Assange compie 52 anni.

Gli ultimi 4 anni della sua vita li ha passati, completamente isolato, in quella che è la “Guantanamo britannica”: la prigione di Belmarsh.
Se dovesse essere estradato negli Stati Uniti, come tutto lascia pensare, rischia 175 anni di carcere per cospirazione e spionaggio.
Assange l’ha fatta talmente grossa per il Pentagono che dovrà pagarla cara fino alla fine dei suoi giorni.
Viviamo da sempre in un mondo al contrario. Non va in galera chi commette crimini di guerra, ma chi li denuncia, come dovrebbe fare, deontologicamente, qualsiasi giornalista su questa Terra.
Eppure i soloni del mondo libero ci hanno sempre raccontato la favoletta che la stampa non può, mai e poi mai, essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
La libertà di stampa, dalla civiltà illuministica in poi, è o dovrebbe essere un diritto inaggirabile, inalienabile e universale.
Macché.
Dopo aver trascorso sette anni da rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, che gli aveva concesso asilo politico, Assange viene arrestato nel 2019: da allora si trova senza processo in galera.
Nel gennaio 2021 una giudice inglese aveva negato l’estradizione, sostenendo che, a causa delle sue precarie condizioni mentali, il giornalista australiano sarebbe stato a rischio di suicidio se condannato e detenuto in una prigione di massima sicurezza.
La pronuncia è stata però ribaltata dopo l’appello delle autorità statunitensi.
Un anno fa poi, l’allora ministra inglese degli interni Priti Patel ha dato il nullaosta alla consegna. A completare l’opera di annientamento di un uomo c’ha pensato l’Alta corte di Londra, che nei giorni scorsi ha rigettato un nuovo ricorso dei legali di Assange.
Da un momento all’altro potrebbe essere estradato.
Naturalmente, come al solito, chi brilla per indifferenza, se non per ostilità sono i media italiani.
La libertà di stampa è sotto processo?
Non è affare loro.