C’È ANCORA SPERANZA, MA BISOGNA COSTRUIRLA ADESSO.

DI SALVATORE GRANATA

 

Dunque.

Il 34esimo polo è naufragato. E fin qui siamo tutti d’accordo tranne Italia Viva e Azione.

A meno che non si parli di “dindini”, che sono l’unico collante che li terrà uniti nei prossimi mesi. Ovvero i 14 milioni di euro di fondi che i due partiti perderebbero in 5 anni se si dividessero, perché a quel punto nessuno dei due avrebbe il numero minimo di eletti per formare un gruppo proprio (20 alla Camera, 6 al senato) e perderebbe tutti quei soldi. Ossia circa 10mila euro al mese ciascuno tra auto, sondaggi, multe, collaboratori, materiale di comunicazione etc. E già da qui si capisce la convenienza di questa convivenza forzata.
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Non solo.
Intanto lasciate perdere i litigi e le varie discussioni fra i due fenomeni, tipo “Renzi non vuole girare i soldi al partito unico” o “Calenda vuole rompere il patto”. Quelle lasciano il tempo che trovano. Restiamo sul concreto.
Quando Renzi e Calenda si unirono attorno al progetto di un terzo polo riformista il gotha dell’imprenditoria e della finanza, indotto anche da una stampa molto favorevole, si spellò mani e portafogli per quell’impresa che alle politiche aveva raccolto l’8%. Tanto da versare nelle loro casse 4 milioni di euro a titolo di “erogazione liberale”.
Bene, nell’elenco dei finanziatori – pubblicato dal Il Fatto Quotidiano – spicca il patron Prada Maurizio Bertelli che in 2 anni ha versato ad Azione 100mila euro. Sempre nella moda la famiglia Zegna, che al 34esimo polo ne ha donati 60mila, quindi Loro Piana che ne ha versati 130mila, l’ultima tranche a fine marzo. Nel settore sanitario c’è il patron di Technit e Humanitas Gianfelice Rocca che ha versato 100mila euro. Confindustria aveva scommesso tanto nella convinzione che il progetto di Renzi e Calenda avrebbe fatto molta strada: Alberto Bombassei cala una fishes da 100mila euro sul tavolo dei tentaquattropolisti, insieme all’ex presidente Antonio D’Amato, Ad Alessandro Banzato (già Federacciai) e Giovanni Arvedi, alla guida del colosso dell’imprenditoria siderurgica. Scendono in campo anche i signori del cemento come Pietro Salini (Webuild) che punta al Ponte di Messina.
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Questi partiti, come quasi tutti, non hanno voto libero d’opinione, ma sono appunto sostenuti da grandi potentati finanziari, e da qui l’impossibilità di fare una politica scevra da influenze esterne, a differenza di chi è libero e indipendente.
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Finché non si porrà un freno all’informazione di regime, ai finanziamenti dei privati ai partiti che quindi pretendono il loro tornaconto, non si cambierà la legge elettorale vigente e il sistema maggioritario e finché gli astensionisti non andranno tutti a votare (perché lì c’è gran parte del voto libero, d’opinione, quasi il 40% degli aventi diritto) non cambierà mai nulla.
Per ottenere una svolta, ci vorrebbe un’alleanza tra due o tre grossi partiti popolari, progressisti e di sinistra, coadiuvati dai sindacati, che si alleino e con il voto di massa si potrebbero ribaltare le sorti di questo Paese. Tutti intorno a una figura scelta magari democraticamente. Ma ci vuole un grande sforzo da parte di tutti.
La famosa “questione morale”.
E dubito che in Italia siamo a tal punto maturi da poter attuare un progetto del genere che, a mio avviso, è l’unica strada da percorrere.
Se si vuole stare dalla parte del popolo si trovino compromessi veri, senza voler fare i capi a tutti costi, altrimenti, per ancora molto tempo sarà solo una mera spartizione di poltrone con i cittadini calpestati nella loro dignità.