IL CASO SERGIO ROMANO

DI ALBERTO BENZONI


Sergio Romano è un liberale di destra. Insomma uno di quelli la cui mancanza viene giustamente deplorata dal Foglio. Ma è anche uno spirito libero. E, nella sua specialità, la politica internazionale, particolarmente insofferente verso quel moralismo, del tutto strumentale, che porta a dividere gli stati in buoni e cattivi a seconda dei rapporti che hanno con l’occidente o, più esattamente, che l’occidente decide di avere con loro.

Su questa base non è riuscito a capacitarsi di un fatto: che la Russia di Putin, certamente non comunista e fortemente ridimensionata nel corso degli ultimi trent’anni sia ancora oggetto di riprovazione e di sospetto; e in misura addirittura superiore rispetto a quella di Breznev e Andropov. E ha scritto un libro – Processo alla Russia – per spiegare il perché di questo atteggiamento. Dico subito che non dobbiamo lasciarci ingannare dal suo titolo. Perché il processo che è il filo rosso del libro, e particolarmente della fase successiva alla caduta del Muro, è in realtà un processo all’occidente e, in particolare, al complesso militare/industriale che ha condizionato in modo permanente la politica russa degli Stati uniti; con il sostegno, altrettanto permanente, di quella vera e propria calamità naturale rappresentata dagli interventisti democratici.

Andremo, allora, a un conflitto militare aperto? Certo che no, aggiunge il Nostro. E per due ragioni: perché delle numerose guerre scatenate dal 1945 in poi, l’America non ne ha vinta nessuna (con l’eccezione di quella contro Granada, N.d.A …). E perché al sullodato complesso, come gli alti comandi della Nato, interessa semplicemente avere più soldi e vendere più armi. Per tacere degli amorosi sensi tra la Casa Bianca e i paesi dell’Est. (Qui, Romano denuncia come follia politica per l’Ue, l’avere consentito l’entrata nella Nato e nella stessa Unione dei paesi dell’Est; soprattutto perché totalmente estranei alla cultura e alla visione del mondo dei nostri padri fondatori).

Ma Romano non si ferma. Perché dedica pochissimo spazio alla (naturale?) aggressività russa e moltissimo, invece, a quella occidentale o, più esattamente, americana: che, trattando la Russia da paese sconfitto, opera attivamente per la sua dissoluzione. Sostenendo a spada tratta la causa dei ceceni. Imponendo privatizzazioni da ogni punto di vista rovinose. E, infine, puntando in modo palese sulla rovina delle strutture del potere.

E allora la comparsa di Putin è insieme una reazione e un rimedio ai disastri degli anni novanta. E in quanto tale è non solo comprensibile ma giustificabile, in ogni suo aspetto. Come è giustificabile (anche e soprattutto in base al principio di autodeterminazione dei popoli), l’annessione della Crimea. Vista a una grossolana violazione di accordi già raggiunti: russi e occidentali avevano raggiunto l’accordo per nuove elezioni in Ucraina in occasione della crisi Yanukovic: ma, guarda caso, a far fallire il tutto c’era stata la rivoluzione, anzi il colpo di stato di Maidan.

Per chiudere in bellezza, Romano rimette in discussione l’immagine della Russia come paese vocato al totalitarismo. Non è totalitario un paese il cui capo si preoccupa per i sondaggi e dove le elezioni possono sempre dar luogo a sorprese; e non lo è soprattutto un paese dove le possibili opzioni sono apertamente discusse in un dibattito pubblica e dove esistono autonomi centri di ricerca e di riflessione.

Naturalmente si può dissentire da questa analisi (personalmente la condivido ma questo è irrilevante). Ma prima del diritto di contestarla, c’è il diritto di conoscerla.

E qui la vicenda del Corriere della Sera è illuminante. Se a scrivere il libro fosse stato il solito giornalistucolo magari affascinato da Putin e dalla sua disinformatsja, si poteva tranquillamente cestinare.

Ma a Romano non si poteva fare questo torto. Perché era Romano. E perché per anni la sua rubrica era stata una delle vetrine del giornale.

Ma pubblicare significa dare spazio a una voce fuori dal coro. E su di un tema tutt’altro che marginale.

La soluzione è senza precedenti. Ma è nel suo campo geniale. Si recensisce il libro; e senza criticarlo. Ma si recensisce, attaccandosi al titolo (Processo alla Russia) e a quattro frasi sparse (tra cui l’”insicurezza aggressiva”) per fare dire al Nostro l’esatto contrario di quello che ha scritto. Scompare così il grande critico della russofobia e della politica occidentale negli ultimi trent’anni; rimane, anzi viene evocato dal nulla un disinteressato esaminatore del processo a Mosca, anzi un sostenitore attivo della sua irrimediabile diversità.

Una vergogna. Ma anche un campanello d’allarme.

A segnalare che il reato contro l’intelligenza è il peggiore di tutti.