RIFLESSIONI SUL VOTO

DI ALBERTO BENZONI



In Francia, alle regionali della scorsa primavera, ha votato il 33% degli elettori. Lì, il disfacimento del sistema dei partiti e, in particolare, lo spappolamento dello schieramento di sinistra, è giunto ai suoi livelli più estremi. Alle presidenziali, invece, la partecipazione sarà intorno all’80%. Lì la personalizzazione della politica, con il Prescelto che fa e disfa e “decide tutto lui” è giunta ai suoi livelli più estremi.

In Germania, alle ultime politiche, ha votato il 77%. Più o meno come cinque anni fa. Lì le istituzioni, partiti compresi, funzionano; così come funzionano in molti altri paesi d’Europa occidentale con un tasso abbastanza simile di partecipazione elettorale. E lì, per inciso, esistono i partiti socialdemocratici, dati da tutti per morti.

In Italia, alle politiche di tre anni, ci fu una partecipazione del 70/75%; il 55/60% di quel voto dato a tre formazioni populiste e variamente antisistema, i 5S, la Lega di Salvini e Fd’I. Oggi, siamo scesi, su di un campione più ristretto, al 55% di cui questi tre partiti rappresentano tra il 30 e il 40%.

Questo per corroborare con qualche dato, quello che dovrebbe essere politicamente evidente a un primo esame. E cioè che il calo della partecipazione è dovuto, essenzialmente, alla trasformazione del voto di protesta in non voto. Liberi voi di valutare se questo sia un fatto positivo oppure no.

Ciò detto l’elettorato si è spaccato a metà e sulla base di criteri, diciamo così, utilitaristici. Chi si attendeva qualcosa dal “sistema” (aggiungendo, nel caso fosse ancora necessario dirlo, che in questa attesa non c’era nulla di ideologico) ha votato; chi non s’attendeva nulla, si è astenuto. Salvo a ricredersi (non si tratta di un abbandono definitivo a differenza di quello che accade negli Stati uniti) in presenza di una offerta nuova e più appetibile.

Il passaggio all’astensione, così come l’orientamento di quelli che hanno votato, riflette peraltro un mutamento radicale della psicologia collettiva.

In primo luogo, si sono smorzate le indignazioni, le paure e, con esse, le pulsioni eversive, con la relativa carica di odio. A tutto danno di un centro-destra che aveva continuato ad alimentarle giocando quasi tutte le sue carte sul fallimento delle politiche sanitarie ed economiche dei governi; per essere regolarmente smentito dai fatti. Dimenticandosi, per inciso, che quello che era in grado di ferire Giuseppi sarebbe regolarmente rimbalzato sulla corazza di Draghi.

A prevalere, calata la grande febbre, la richiesta di tutela e di protezione; e, ad accoglierla, papà Pd, da sempre attrezzato alla bisogna.

A favorire la sua indiscutibile vittoria, altri due elementi: il crollo del “fattore identità”; e, accanto ad esso, la presenza ormai costante di sistemi elettorali che esaltano il ruolo dell’individuo rispetto alla collettività e, nel contempo spingono, addirittura sin dal primo turno (come in questo caso), a premiare il “voto utile” rispetto a quello di opinione e, in particolare, a quello di appartenenza.

A passare all’incasso, appunto, il Pd di Letta. Che, da una parte, fa il vuoto accanto a sé cannibalizzando completamente le forze alla sua sinistra, ridotte ad una subalternità senza principi o rinchiuse in un identitarismo delirante; e, dall’altra, incassa il voto utile; in nome, peraltro, del “meno peggio” e senza sforzarsi più di tanto per diventare migliore.

I successi senza fatica hanno, peraltro, una controindicazione grave: la tendenza all’autocompiacimento; la rinuncia a pensare; l’istintiva autocensura nei confronti di qualsiasi iniziativa sgradita ad un “sistema” di cui si adottano, magari inconsciamente, tutti i tabù.

Carenze ritenute irrilevanti in un contesto di apparente unanimismo sulle questioni fondamentali (e, in questo senso, perfettamente rappresentato dalla figura di Draghi); ma che diverranno fatale elemento di debolezza quando si tratterà di decidere chi deve pagare i costi della crisi e della fuoruscita dalla medesima. E, nel contempo, stabilire se le esigenze della collettività su questioni vitali come l’ambiente o il lavoro debbano, o no, fare premio su quelle di “lorsignori”, leggi del potere costituito.

A quel punto i casi saranno due: o saremo in presenza di un grande movimento di popolo e di cittadini che risveglierà il Pd dal suo sonno beato e assisteremo alla nascita di un grande partito socialdemocratico; o la disfatta della sinistra e, con essa, della democrazia ci sarà. E sarà definitiva.