9 OTTOBRE 1967, GIUSTIZIATO CHE GUEVARA

DI RINO GIRIMONTE

Aprendimos a quererte…

Libertà, uguaglianza, giustizia, solidarietà, rivoluzione, quanto è difficile tenerle insieme, strette, strette come le dita d’una mano, montagne si ergono e non fan passare la luce, e la storia è una triste processione
di fracassi. Con impennate, però, di eroici tentativi, fugaci apparizioni di speranze come risarcimento all’impietoso carico di sfruttamento e disuguaglianze. Alcuni ci hanno provato, hanno nomi leggendari, superflui cognomi. Bastava dire “Che”, e non vi fu nome più corto e più potente, per evocare la ribellione, per suscitare emozioni e sogni. Tutti noi siamo stati Che, che poi è intercalare tipico argentino, il Tu guaraní, un nomignolo collettivo posto come mito al servizio degli sfruttati dell’intero mondo, un volto che dava senso e bellezza all’estetica della lotta. Che faceva sbavare i padroni della terra e non avevi ancora 40 anni ma per loro eran già troppi. Steso nel tuo calvario, con gli occhi vigili, sgranati, come a voler memorizzare il volto dei tuoi aguzzini, mai morte alimentò così tanta voglia di combattere. E mi duole Cuba, un paese che si difende, sempre in costruzione e la maledetta difficoltà di gestirlo, e le contraddizioni, le fobie, la resistenza contro avversari imperiali che impediscono perfino l’entrata alle medicine, circondati da un nemico con gli stivali sempre pronti all’invasione. Cuba e la clandestinità dei diritti civili, una persecuzione di nemici interni, chissà perché pericolosi, forse solo perchè diversi, io ne ho conosciuto qualcuno,
storie umanissime, non previste dai manuali di guerriglia, mi parlavano della vita grama per un omosessuale, quella di strisciare di notte rasente i muri di Santiago, e il Malecón di La Habana affollato di insorgente machismo. Ma Cuba è la buona scuola, la magnifica sanità che si fa apprezzare ovunque, e noi ne sappiamo qualcosa, ma non basta, con tutti le attenuanti possibili, c’è una cosa che è innegoziabile, e lo dico con il peso nel cuore: la libertà.
Mai sapremo se Ernesto Guevara sarebbe rimasto impigliato nella burocratica macchina statuale, nel giorno dopo giorno nella gestione della realtà. Lo hanno ucciso una volta sola e lui rivive in ogni battaglia, negli occhi degli umili, nelle grida degli ultimi. In tempi in cui basta una felpa per farti capitano, a me piace pensarlo di villaggio in villaggio, a piedi o con la sua motocicletta, con il suo basco nero, solidarietà a piene mani, per le strade di Santa Clara, a spargere coraggio e giocarsi la vita per i diritti degli oppressi. Lui e la mia gioventù, assetata di miti e sovraccarica di bandiere, con il pugno chiuso a cantare e urlare, a correre incazzati tenendoci per mano, turismo guerrigliero per le strade di Roma, l’udito teso alla musica salsera e a tutti i venti che dal Caribe scuotevano le nostre chiome. Storie che ci hanno fatto vibrare, che hanno costruito orgoglio di appartenenza, comunità di intenti e di sentimenti, che ci hanno regalato un sogno ed oggi è quel che resta, e sognare è già abbastanza. Fin lassù, appostato su qualche nuvola, con il tuo sigaro in bocca, grazie per avermi accompagnato negli anni in cui la parola compagno significava molto, grazie per far parte della mia memoria, di un tempo di sconfitte ma che valse la pena viverlo perché aveva dentro una possibilità, la speranza di vittoria.

“Quando morto sarò una sera – nessuno mi piangerà – non rimarrò sottoterra – sono vento di libertà.”

HASTA SIEMPRE, COMANDANTE!