L’ultimo cavaliere del calcio perduto

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Claudio Ranieri l’eccezione

 

In un calcio che brucia tutto in fretta — tra fondi d’investimento, filibustieri, sponsorizzazioni e algoritmi — Claudio Ranieri è l’eccezione che dimostra come il pallone possa ancora essere un racconto umano, romantico.
Claudio Ranieri nasce a Roma, ma soprattutto nasce a San Saba. Tra oratori e case popolari. Si fa le ossa in difesa dopo aver tentato di segnare davanti: tutta la sua vita sarà così, un adattamento continuo. Diventa un giocatore rispettato, ma è da allenatore che scrive la sua mitologia.

Nessun santo in paradiso

Solo gavetta e lavoro. Parte dalla Vigor Lamezia e risale l’Italia in silenzio, a testa bassa. Col Cagliari firma la prima favola: dalla Serie C1 alla A in tre anni. Con la Fiorentina vince, col Valencia convince, al Chelsea costruisce.

A Leicester diventa leggenda

Prende una squadra, appunto il Leicester City, destinata alla retrocessione e la porta sul tetto d’Inghilterra. Non con le stelle, ma con i gregari. Vince il campionato contro ogni pronostico. Senza urlare, senza schiacciare. Fedele al gruppo, alla fatica, all’idea che si vince insieme o non si vince affatto. Collettivismo puro. Lo chiamano “Tinkerman” per i suoi cambi imprevedibili, ma la sua vera arte è un’altra: sa tenere in equilibrio il caos. Sa parlare ai presidenti, ai magazzinieri, ai tifosi. Sa entrare in punta di piedi, senza mai invadere.

E poi c’è Roma

La sua Roma. La squadra che ama da bambino e che allena tre volte, sempre chiamato nei momenti più fragili. Non alza trofei, ma rialza la città. E ogni volta, saluta con uno dei suoi sorrisi.
Ranieri è un uomo fuori tempo. Quando vince, ringrazia. Quando perde, non cerca alibi. È l’ultimo allenatore che somiglia a un artigiano. Di quelli che ancora lucidano gli scarpini col grasso la sera prima della partita.
Claudio Ranieri non allena solo squadre. Allena il tempo. Lo rallenta. È l’ultimo cavaliere del calcio perduto. Per questo resterà. Come simbolo. Come memoria vivente di un calcio che aveva un’anima.
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Alfredo Facchini