CIAO, LUISITO

DI ADOLFO MOLLICHELLI

 

Lo vidi la prima volta in tv in bianco e nero, immaginando le strisce blaugrana che avevo visto sulla figurina Panini, e mi affascinò. Insieme con Kubala.

Un debole per il Barca e già un’innata antipatia per il Real che era di Di Stefano, Puskas e Gento ma soprattutto del caudillo (non li ho mai amato i dittatori).
Capelli tirati e impomatati, un, sembiante da espada. Quando lanciava i compagni da sessanta e più metri quasi si accovacciava, elegante e preciso e quando s’avvicinava all’area avversaria era letale.
Col passare degli anni dedussi ch’era stato un po’ Platini le roy e un po’ Pirlo (che egli stesso definì suo erede). Un “dieci” immenso, tra i più forti di tutti i tempi.
Unico pallone d’oro della caliente tierra di Spagna.
Di Stefano, la saeta rubia, rivale e amico, lo definì l’Architetto e immaginate che cosa fu l’Inter di HH (“se non sapete che cosa fare, date la pelota a Luisito”) che aveva Jair la freccia nera (era venuto in Italia dal Brasile insieme con Germano che vestì il rossonero del Milan e Cané che vestì l’azzurro del Napoli), Sandrino Mazzola tutto nervi, scatti e palleggi (Ah! la notte del Prater), e Mariolino Corso, il sinistro di Euclide. Il centravanti? quasi un orpello: Milani, Peirò, Domenghini. E dietro: Sarti e Burgnich e Facchetti e Bedin, Guarneri e Picchi.
Il papà aveva una macelleria e poiché Luisito cresceva gracilino lo rimpinzava di fette di carne. Luisito le mangiava per fargli piacere ma era nella testa che era già un colosso e così quando Armando (Picchi) il capitano gli raccomandò quella sera a Vienna di “guardare un po’ Puskas, un po’ Di Stefano” Luisito sbottò: “ehi, muchacho, siamo qui per batterli mica per chiedergli l’autografo!”.
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Il nome completo era Luis Suarez Miramontes. Proprio un nome da torero.