COSA SIGNIFICA ESSERE RIFORMISTI

DI ALBERTO BENZONI

Ai tempi gloriosi del socialismo del primo novecento la cosa era chiara a tutti. Significava lavorare, giorno dopo giorno, per l’emancipazione delle classi lavoratrici, con la creazione delle relative istituzioni: case del popolo, sindacati, cooperative, leghe; o con l’uso “alternativo” di quelle pubbliche, a partire dalle province e dai comuni. In un disegno che escludeva da una parte gli esteti dell’atto rivoluzionario (quasi tutti confluiti nel fascismo) e, dall’altra i socialisti che ritenevano che qualsiasi posizione autonoma o addirittura antagonistica della classe nei confronti del potere fosse diventata superata se non addirittura nociva (quasi tutti scomparsi nel nulla).

I riformisti poi li conoscevano tutti. Erano quelli chiamati all’epoca “apostoli” e “buoni artieri”. Gente che non “andava verso il popolo” per poi raccontare a tutti le emozioni dell’incontro. Ma gente che stava in mezzo al popolo per aiutarlo ad emanciparsi. Prampolini e Baldini, Anna Maria Mozzoni e Argentina Altobelli, Buozzi e Massarenti e, eroe tra gli eroi, Matteotti, simbolo ineguagliato dell’intransigenza del fare; e con lui tanti eroi sconosciuti, primo bersaglio della squadrismo, uccisi, vilipesi, umiliati, costretti ad assistere alla distruzione di un mondo (a partire dalla sede dell’Avanti!) costruito con infinito amore e infiniti sacrifici. E, come Matteotti, disposti a morire pur di non derogare ai propri principi.

Chi sono, cosa fanno e cosa intendono fare, invece, i “riformisti” di questi ultimi tempi?

Non lo sappiamo, non possiamo saperlo, anzi non dobbiamo saperlo. Perché abbiamo di fronte una specie di mistura tra una Trilateral alla milanese, una loggia massonica e un circolo degli scacchi. In cui si entra per (auto invito) o per titoli pregressi; che parla apparentemente in italiano ma non è più comprensibile dell’etrusco; in cui è proibito per legge guardare dentro; il cui obbiettivo è la promozione dei propri aderenti; e, soprattutto, che si manifesta all’esterno con continui anatemi, volti ad escludere dalla società politica chiunque metta in discussione le sue direttive. O che abbia l’indelebile macchia di non potere fare parte del circolo degli eletti.

Il riscatto però non verrà dagli esclusi. O dalle, spesso inconsapevoli, vittime di un sistema che ha sostituito la realtà con la rappresentazione, il pensiero con gli slogan, la democrazia con il culto del salvatore di turno e il futuro collettivo con il sogno individuale. Fino al punto di diventare una razza in via di estinzione o comunque non credibile come indicatori del futuro.

Pure c’è qualcuno, anzi ci sono tanti che, non essendo stati coinvolti nello sfasciume incolore e inodore che ci sta soffocando, non hanno bisogno dei nostri consigli per ritrovare una libertà di pensiero e una capacità di indignarsi che è già in loro possesso. E che, trovandosi, liberi da paraocchi, in un universo quotidiano in cui quello che appariva normale diventa improvvisamente intollerabile, hanno, in sé, tutti gli strumenti per capire perché le cose non funzionano e come cambiarle.

Non si tratta di eroi venuti al nostro soccorso da chissà dove. Perché li vediamo tutti i giorni davanti a noi e in tutto il mondo, per strada, in televisione e nelle notizie che giungono da ogni parte del mondo. Ma non si tratta nemmeno di un Settimo cavalleggeri da attendere con le nostre piccole bandiere. Perché la foresta che stanno attraversando è piena di insidie e di ogni sorta di nemici.

Il nostro compito, allora, in Italia come altrove è quello di aprirgli la strada, combattendo duramente contro i loro nemici e in uno schieramento più ampio possibile. Così da restituire alla parola e soprattutto alla Cosa del riformismo la sua dimensione reale. Che è quella della sfida e difficile dolorosa per cambiare le cose senza ricorrere a facili scorciatoie.

In quanto ai “riformisti” di oggi, nessun problema, potranno sempre parlarsi addosso, in un apposito club; senza essere disturbati ma senza disturbare gli altri.