IL NEMICO PRINCIPALE

DI ALBERTO BENZONI



Negli ultimi mesi dell’anno l’economia, e con essa lo stesso ordine mondiale, entreranno in un passaggio decisivo per il loro futuro. Per capirne la natura pensate a due ascensori – l’uno portatore del Covid, l’altro dell’andamento dell’economia – collegati tra loro in modo perverso: perché la crescita dell’economia trascina in su il contagio; mentre questo, a sua volta, la ostacola gravemente.

Ora, la fase che stiamo vivendo è segnata, insieme, dalla ulteriore diffusione del morbo; e, in Europa, da una sua seconda ondata. E, almeno dall’agosto in poi, da un netto rallentamento della ripresa. Legato non solo alla ripresa del Covid ma anche dall’inaridirsi della sua fonte principale, l’aumento massiccio della spesa pubblica.

I relativi programmi, raggiunto il loro termine temporale, non sono stati ancora rinnovati. In parte, come in America per il mancato accordo tra repubblicani e democratici. In linea generale, perché questo ritorno in campo dello stato e del pubblico si urta con crescenti resistenze.

A resistere, attenzione, non sono soltanto quelli che sperano nel ritorno del vecchio ordine: stato minimo, meno tasse e meno spese, rigore e via discorrendo. Speranza sostanzialmente infondata e sempre più percepita come tale. Ma una nuova destra, politica e padronale, che sta progressivamente recidendo i fili che la legavano all’universo liberale; e che, proprio per questo, sta richiamando a sé (almeno in Europa occidentale) un populismo di destra già in declino di suo.

Negli ultimi decenni, essa era vissuta in una sorta di paese di Bengodi. Il mondo delle imprese come nuova “classe generale”; il profitto divenuto variabile indipendente; la possibilità di dare o togliere il lavoro o di delocalizzarlo; un regime fiscale sempre più favorevole; il pensiero unico in economia e la prevalenza delle sue ragioni su quelle della politica.

Il tutto accompagnato da una resa in campo aperto dello stato e del pubblico e da un consenso, attivo e passivo, pressoché generale. Mentre significava, né più né meno, la fuoruscita da quel compromesso storico tra capitalismo e democrazia, garante lo stato, costruito e via via consolidato nei decenni del dopoguerra. Un compromesso che si era potuto realizzare in un regime di crescita dei redditi e dei consumi, all’interno di un ordine internazionale in cui l’Europa aveva un ruolo sostanzialmente centrale e in cui la sinistra era assertiva ed egemone a garanzia di un progresso costante della democrazia e del mondo del lavoro. Fino al punto di addormentarsi nella convinzione che tutto ciò fosse, come il diamante “per sempre”; mentre tutto, ma proprio tutto, stava cambiando.

Poi, è arrivata la pandemia. E, con essa, un mutamento radicale delle prospettive non già determinato dal mutamento dei rapporti tra le forze in campo o da un qualche disegno razionale, ma da eventi del tutto imprevedibili. E in un mondo non solo più povero, più disuguale e più chiuso ma passibile di futuri incerti e assai diversi da loro.

Oggi, tutto sta diventando imprevedibile (ivi compreso quello che succederà in America). L’andamento dell’economia. I riflessi politici, economici e sociali di un nuovo lockdown. L’esito dello scontro, all’interno delle classi dirigenti, tra revisionisti e conservatori. Lo stesso futuro dell’Ue. Il ruolo che il pubblico e il privato avranno nella gestione della crisi. E, in linea generale, l’esito dei vari conflitti in atto per l’uso e il controllo di risorse oggettivamente limitate.

Ad accrescere in modo potenziale l’incertezza e quindi la paura c’è poi il ritorno dello stato e del potere politico al centro della scena; e per la forza irresistibile delle circostanze.

Ora la classe dominante può metabolizzare tranquillamente la povertà e le disuguaglianze degli altri ma non certo l’incertezza sul proprio futuro; e il fatto che questo torni a dipendere da decisioni altrui.

È vero: gli stati sono del tutto impari rispetto ai nuovi compiti loro assegnati; e oltre tutto incerti sulla via da seguire. Mentre la sinistra non ha la forza per spingerli nella direzione giusta; anche perché non ha ancora capito quale sia. Rimane però il fatto, come dice il proverbio, che “l’occasione fa l’uomo ladro”; e che, nel caso specifico, il diritto dello stato di stabilire, in nome della lotta contro il covid, cosa debbano o non debbano fare i cittadini potrebbe indurlo a farne tesoro nei suoi rapporti con le imprese. Oltre tutto, se lo stato viene chiamato a garantire i loro debiti o la loro liquidità dovrebbe avere anche voce in capitolo sul loro futuro. Per tacere dell’entità e della qualità della spesa pubblica.

Come reagire allora? Su questo punto, la classe dominante è profondamente divisa. Da una parte, specie a livello di vertice, nazionale e più ancora internazionale, è sempre più forte la spinta verso un nuovo compromesso democratico: si collabora con lo stato per la ripresa, nella convinzione che nulla potrà più essere come prima. Dall’altra, si combatte con tutti i mezzi contro il nuovo corso; magari sperando di indurre lo stato a emarginare definitivamente le classi subalterne, anche a costo di violare, come sta già avvenendo, le regole e i principi della democrazia liberale.

In questo scontro, decisivo per il futuro del mondo, il ruolo e il peso della politica sono, per ora, molto deboli. E per ragioni note a tutti.

E, allora, per noi le opzioni sono due: o ci si chiama de finitamente fuori da uno scontro che non ci riguarda; o si sostiene, autonomamente, le forze del cambiamento. Con l’obbiettivo di dare alla loro lotta una base più ampia; e nel contempo di portarla su basi più coraggiose e avanzate.

Data la posta in gioco, l’unica scelta possibile.