GRANDE RENATO ZERO, L’UNICO A NON ABBANDONARE MIMI’

DI MARINO BARTOLETTI

Quando è nato Achille Lauro (e ovviamente si chiamava ancora Lauro de Marinis), Renato Zero (e la sua maschera) aveva già alle spalle più di vent’anni di carriera, non meno di dieci di trionfi e qualche inciampo. Stava per partecipare al suo primo Festival di Sanremo che avrebbe spiazzato tutti, ammiratori (tanti) e detrattori (abbastanza): con quello “Spalle al muro” scritto da Mariella Nava, che avrebbe aperto un nuovo mondo sulla possibilità di ammirarlo. Io stesso, che ne avevo seguito con un po’ diffidenza le prime performances (d’altra parte quanti grandi amori nascono, a volte, persino dall’antipatia) gli giurai una solida e durevole fedeltà. Perché ne avevo finalmente capito senza più retromarce la completezza artistica.
Da oggi Renato, di anni, ne ha settanta. E sono gli anni di un artista maturo, che non ha mai abdicato alla sua indipendenza e alla sua originalità, ma che ha aggiunto “sapienza” alla sua cifra interpretativa. Che si è saputo rinnovare senza cambiare mai. Ha meno piume fuori e più lustrini dentro. Ed è senza dubbio, al tirar delle somme, uno dei performer più amati in assoluto della storia della nostra musica
“Anche con le paillettes – ha detto – non sono mai stato un clown”, quasi a esorcizzare la potenza e il limite della sua inconfondibile cifra estetica. E forse ci voleva davvero un “clown” per cantare quello che ha cantato e per affrontare i temi che ha affrontato. Compresa la pedofilia, compresa la solitudine, compresa la morte: compresa la fede immortalata dalla profonda e sconvolgente “Ave Maria” con cui bissò il suo esordio a Sanremo salutato da un’indimenticabile standing ovation. E poi l’amore – certo – l’amicizia, la gioia e la tristezza e tutti gli argomenti “tradizionali”: ma l’amore e l’amicizia, la gioia e la tristezza pochi li avevano interpretati parlando di un triangolo che non avevano considerato, di un cielo che non è solo una macchia scura, di una scandalosa “madame” che aveva davanti a sé una fila a tre per tre, di un carrozzone che riprende la via fra facce truccate di malinconia (e che Gabriella Ferri, pensate un po’ aveva rifiutato). Il resto divertitevi ad aggiungerlo voi secondo i gusti, fino a far notte!
Sì credo proprio che Renato abbia cantato, almeno per quanto mi riguarda, i migliori anni della nostra vita. Ma c’è una cosa che, al di là del valore artistico, me lo rende ancora più grande: è stato uno dei pochi – forse il solo – a non aver mai né abbandonato, né tradito Mimì.