ZEROCALCARE ROMANESCO, EMBE’?

DI NICOLETTA AGOSTINO

Di tutte le critiche più che legittime a Zerocalcare, meglio, nello specifico alla sua serie appena uscita su Netflix, quella sulla lingua, sull’“eccesso” cioè di romanesco che la renderebbe poco fruibile al grande pubblico è quella davvero più insensata e surreale. Perché la lingua è un fatto identitario, e Zerocalcare è ontologicamente quella cosa lì.

La costruzione simbolica dei mondi e dei personaggi che vivono dentro il suo racconto non è separabile dal modo in cui parla, dallo spazio linguistico in cui agiscono, chiamasi contesto (sociale, culturale, quindi anche linguistico, ovvio). E non lo è, separabile, nemmeno dal suo spazio psichico, mentale, perché è così che li pensa, prima ancora di trasferirli su un foglio. Basta averlo ascoltato parlare del suo lavoro una volta soltanto.

E io davvero non vedo un modo migliore per avvicinare il grande pubblico al proprio mondo, interiore e fisico, se non attraverso l’autenticità, la fedeltà a sé stessi, anche quando il contenitore spingerebbe ad un adattamento del contenuto.

Stando alla critica di romanocentrismo, rispondo con un aneddoto personale. Ero al supermercato, in fila alla cassa. Lucio Dalla era morto da 24 ore. La cassiera dice alla signora che mi stava davanti: “hai sentito sì, de Dalla? Porello, mamma mia, così giovane, che tragedia!”. E la signora: “e vabbè, sì, ma mo’ la stanno a fa’ troppo lunga. Manco s’era morto Renato Zero”. Ecco, difficile spiegarlo meglio.