DI ALFREDO FACCHINI
Duecentotrentuno
Il giornalismo, quello vero, avrebbe un compito preciso: disturbare i manovratori
Rovesciare pietre, anche quando sotto ci sono vermi potenti. Inseguire la verità anche quando si infila nei buchi neri del sistema. Invece oggi il giornalismo si limita a riportare note stampa, copincollare dichiarazioni, recitare bollettini. La critica, un vezzo da opinionista. L’inchiesta, una rarità.
Una volta si diceva: la stampa dovrebbe essere il cane da guardia della democrazia. E invece si è fatta barboncino da salotto. Accarezzata dal potere, nutrita da pubblicità, tenuta al guinzaglio dalla proprietà. Quando parla, lo fa con deferenza. Quando tace, lo fa con complicità.
E poi c’è Gaza. Dove il giornalismo è morto davvero
Massacrato, non metaforicamente, ma fisicamente. 231 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre: questo il conto funebre pubblicato da Al Jazeera. Non numeri. Nomi. Vite. Testimoni. Anzi, ex testimoni. Perché un’intera generazione di cronisti è stata annientata sotto le bombe, mentre molti dei loro colleghi in Occidente hanno semplicemente scrollato le spalle. Qualcuno ha balbettato. Molti altri hanno ignorato, coperto, distorto. Per non rischiare lo stipendio.
In un mondo normale, 231 giornalisti massacrati in pochi mesi avrebbero aperto ogni telegiornale
Sarebbero diventati un caso internazionale. Avrebbero indignato, spinto alla mobilitazione, scorticato coscienze. Invece no. Il silenzio è stato assordante. Il cordoglio selettivo. Il principio di realtà sostituito dalla convenienza editoriale.
Il giornalismo quello vero dovrebbe inquietare
Dovrebbe svelare. Non dovrebbe servire. Dovrebbe resistere.
Chi si ricorda ancora di Ilaria Alpi? Di Mauro Rostagno? Di Giancarlo Siani? Di Giuseppe Fava? Di Vik Arrigoni? Di tutti quelli che hanno pagato il prezzo di non piegarsi?
Il loro mestiere era un rischio. Oggi è diventato una carriera. Una scalata. Una liturgia mediatica fatta di “equidistanza” tra vittime e carnefici, tra chi mente e chi denuncia. Una vergogna.
Smettiamola di chiamarlo giornalismo. Finché non tornerà a essere quel che dovrebbe: un atto di insubordinazione permanente.
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Alfredo Facchini
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Foto nei titoli da RSI