DI ALFREDO FACCHINI
Referendum, ma è stata veramente una disfatta?
Dopo un primo momento di sconforto — se non di incazzatura — davanti a un’affluenza ferma attorno al 30%, in molti, me compreso, si saranno detti: il lavoro non mobilita più nessuno. La partecipazione è solo un ricordo del Novecento. E giù smoccolamenti. Poi, una volta ripresomi, ho cambiato carnagione.
Forse perché vivo nel METAVERSO. O forse perché, essendo comunista, e quindi un inguaribile ottimista, ho iniziato a sminuzzare i numeri con attenzione. Senza farmi accecare dal cinismo e dalla rassegnazione.
A scanso di equivoci: personalmente, delle sorti del PD e della CGIL, delle loro segreterie, non è affar mio. Sto su un’altra barricata.
C’è un dato che dovrebbe far saltare sulla sedia
Secondo le prime stime, hanno votato oltre 15 milioni di persone. Un’affluenza attorno al 30% degli aventi diritto, in un Paese dove disincanto e astensione sono diventati la norma. Alle elezioni politiche del 25 settembre 2022 ha votato il 63,9% degli aventi diritto, il dato più basso della storia repubblicana. L’affluenza è calata di quasi 9 punti rispetto al 2018.
Andiamo avanti
La CGIL conta poco più di 5 milioni di iscritti. Eppure, alle urne è andato un numero triplo rispetto alla sua base organizzata. Se — ipotesi estrema ma utile per riflettere — tutti questi voti fossero per il Sì, significherebbe che un’idea di giustizia sociale, di rifiuto della precarietà, di centralità del lavoro ha coinvolto una massa consistente di cittadini.
Più di quanto abbia fatto qualunque singolo partito alle politiche del 2022. Più dei 7 milioni di voti di Fratelli d’Italia, oggi forza di governo. Più dei 12 milioni della coalizione di centrodestra che ha conquistato Palazzo Chigi. Se i lavoratori fossero un partito — ma non lo sono, ed è questo il nodo — sarebbero oggi la forza maggioritaria del Paese.
Un dato, prima di andare avanti
In Italia ci sono circa 24 milioni di occupati, una massa frammentata tra pubblico, privato e autonomi.
– Dipendenti a tempo indeterminato: 16,45 milioni.
– Dipendenti a tempo determinato: 2,66 milioni.
– Autonomi: 5,11 milioni.
– I servizi dominano: reggono il 68% del mercato del lavoro (16,5 milioni).
– L’industria, in calo strutturale, copre il 28% (6,5 milioni).
– L’agricoltura è una nicchia (4%), spesso marginalizzata (1 milione).
Insomma, l’Italia del lavoro ha cambiato volto
Tutte le categorie dell’operaismo non funzionano più. Il neoliberismo ha tirato il napalm sul senso di appartenenza delle classi di provenienza. Oggi non ci si salva più insieme, nei posti di lavoro. Ma da soli. Il resto lo ha fatto un sindacalismo istituzionale asfittico. È il frutto di un processo preciso, scientifico: precarizzazione delle vite, smantellamento dei diritti, privatizzazione del senso comune, riduzione della politica a comunicazione e della cittadinanza a consumo. Eppure, in un’Italia così, sempre più diseguale, dove il lavoro è povero, discontinuo e spesso invisibile, una parte del Paese ha voluto rispondere. Senza farsi illusioni, forse. Ma con determinazione. Non era scontato. Non era facile. Eppure è successo.
Allora, la vera domanda è:
chi rappresenta oggi questi milioni di italiani? Dove si riflette la loro voce nella scena pubblica? Esiste uno spazio politico capace di ascoltarli e di agire di conseguenza, al di là dei giochi tattici e delle rendite di posizione? Perché, lo si voglia o no, questo voto dimostra che esiste ancora una forza sociale viva, capace di mobilitarsi, di dire “noi ci siamo”, anche se spesso invisibile nei sondaggi e nel racconto dominante. Chi ignorerà questo segnale, si condannerà alla irrilevanza.
C’è chi propone di “rieducare” i cittadini alla democrazia
Ma l’unica vera educazione politica è la partecipazione organizzata. Serve un’altra sinistra, che non cerchi il consenso a colpi di riformismo stanco, vile, ma che costruisca soggettività ribelli, consapevoli, capaci di rompere l’apatia. Serve un lavoro paziente nei territori, nei luoghi di sfruttamento, nelle vite frantumate. Serve dare voce al rancore, per trasformarlo in progetto.
Ci vorrà tutto il tempo che serve, ma prendiamocelo.
.
Alfredo Facchini