DI RAFFAELE VESCERA
10 Giugno 1924, i fascisti rapiscono e uccidono l’On. Giacomo Matteotti
“Tutto accadde in pochi secondi, il pomeriggio dell’assolato dieci di giugno del 1924 sul Lungotevere, a pochi passi dall’abitazione del deputato. L’onorevole Matteotti uscito di casa a piedi per raggiungere la vicina fermata del tram, fu aggredito da due uomini. L’ancor giovane e agile segretario socialista si difese con forza, riuscendo quasi a sfuggirgli di mano, ma fu sopraffatto da altri tre uomini sopraggiunti che a calci e pugni lo atterrarono, trascinandolo di peso verso una vicina automobile in sosta che partì sparendo nel nulla della controra verso la campagna romana, con uno degli aggressori che saltava sul predellino dell’auto in corsa, lì reggendosi per poi rientrare nell’abitacolo. Altri due fuggivano a piedi, dileguandosi, mentre Matteotti si dibatteva in macchina, urlando, sfondando il vetro divisorio con un calcio e gettando fuori dall’auto la tessera da deputato del Parlamento.
La signora Velia, moglie di Matteotti, affacciata alla finestra in attesa del marito che le aveva promesso un veloce ritorno, vedeva consumarsi il giorno. Passò una nottata insonne, in angoscia, nessuna telefonata, nessuna notizia, niente di niente, forse Giacomo aveva cambiato programma, per partecipare a un’imprevista riunione di partito, incontri che si protraevano fino a tarda notte, ma mai avevano fatto l’alba, o forse era stato messo sull’avviso di una possibile aggressione per il discorso alla Camera che aveva preparato sui brogli elettorali del partito fascista e altri maneggi sporchi del regime, i giornali già ne parlavano, e non era rientrato, come era accaduto altre volte, per ragioni di sicurezza. “Ma perché non mi ha fatto avvisare come nelle precedenti occasioni, perché mi lascia torturare così, senza uno straccio di notizia? No, Giacomo lo conosco bene, è il migliore degli uomini, non l’avrebbe mai fatto, non mi avrebbe mai lasciata in questa sofferenza. Sicuramente è successo qualcosa di tragico.” Così si torturava e contava i minuti che la dividevano dal nuovo giorno.
Al mattino, si rivolse ai compagni di partito, ma quelli le dissero che suo marito non lo vedevano dal giorno precedente. Era ora di denunciare alla polizia la sparizione del più accanito avversario di Benito Mussolini, capo del partito fascista e del governo. L’onorevole socialista Modigliani, avvocato, si offrì di accompagnarla in questura per sporgere denuncia di sparizione. Le chiesero se l’onorevole non fosse per caso partito per Vienna, visto che due giorni prima gli avevano concesso il passaporto apposta per mandarcelo, ma lei disse che no, aveva cambiato idea, aveva preferito restare a Roma per tenere un discorso alla Camera, dove s’era iscritto a parlare. E poi non sarebbe mai andato in alcun luogo senza dirlo a lei, sua moglie.
<<Mi perdoni se le faccio questa domanda, ma sono d’obbligo nei casi di persone scomparse. Non è, cara signora, che ha fatto qualche scappatella sentimentale, magari che si vedesse con un’altra?>>
<<Che dite mai, abbiamo figli, e non conosco uomo migliore di lui.>>
<<Allora cercheremo per strade e ospedali, semmai si fosse sentito male o si fosse perduto.>> La congedarono facendole firmare una carta.
Intanto che al sole del tramonto i palazzi capitolini arrossivano per le proprie antiche vergogne e quelle nuove di altri barbari, calati d’oltre-Rubicone per umiliare ancora Roma, Velia passò abbracciata ai figli un’altra sera, calda, umida, appiccicosa di scirocco, insopportabile come quella precedente, in attesa di un impossibile ritorno e di una notte interminabile.
Erano passati due giorni dalla misteriosa sparizione del deputato, le indagini spettavano al piccolo ed esile commissario Epifanio Pennetta, fisico e fiuto di cane da caccia e mente di pronta intelligenza. Stava indagando sulla scomparsa di una bambina probabile vittima del mostro di Roma, ma il questore gli disse di occuparsi del nuovo caso, la scomparsa del segretario del partito socialista era più importante, i giornali di opposizione già martellavano l’opinione pubblica parlando di un rapimento a scopo politico, il regime poteva crollare in seguito a tale scandalo.
<<Intanto, ecco, abbiamo qualcosa su cui indagare, semmai possa avere un legame con la sparizione di Matteotti. Il commissario De Bernart ha appena raccolto la testimonianza di due portieri dei vicini caseggiati, i quali hanno riferito che la sera prima della scomparsa si aggirava una Lancia con fare sospetto sotto l’abitazione dell’onorevole Matteotti. Pensando fossero ladri, ne avevano appuntato il numero di targa. Il guaio è che l’hanno spifferato prima ai giornalisti che battevano la zona in cerca di informazioni. Dunque, mi capisce, non possiamo fare a meno di ritrovare l’auto e i suoi proprietari.>>
Pennetta comprese l’antifona, la targa dell’automobile era già di pubblico dominio e il suo ritrovamento era d’obbligo. Al commissario tuttavia parve strano che il carabiniere posto di guardia sotto l’abitazione di Matteotti a sua protezione non avesse notato nulla, per quanto quella automobile sostasse per ore con un andirivieni di uomini sospetti. E parve ancor più strano che il questore, due giorni prima del rapimento, avesse revocato la scorta di agenti in borghese che dovevano seguire l’onorevole, ovunque egli andasse. Capì che quello sapeva più di quanto gli avesse riferito.
Pennetta sapeva che le persone scomparse che non si ritrovano in ventiquattr’ore non si ritrovano più, se non morte, se delitto c’era stato, sarebbe stato perfetto, ma forse quel dettaglio del numero di targa di un’auto sospetta poteva significare qualcosa. L’abile segugio si mise alla cerca. Convocò la squadra, il quartiere andava battuto porta a porta, in cerca di ogni labile traccia.
<<Sì, dalla mia finestra ho assistito a distanza alla scena di un pestaggio e rapimento, erano cinque uomini più uno, l’autista che aspettava a motore acceso in un’elegante automobile, una Lancia berlina nera, ma non ho potuto vedere la targa, si è svolto tutto velocemente. Per strada mentre avveniva l’aggressione, c’erano due ragazzini e uno spazzino.>>
La descrizione dell’auto del sequestro corrispondeva a quella segnalata dai portieri. Avevano il probabile numero di targa. Disse al suo assistente di rintracciare il proprietario dell’auto. L’ispettore Balducci accertò che l’automobile era intestata a un garage di Piazza Trevi. Lo raggiunsero svelti. Il proprietario del garage riferì che l’auto era stata noleggiata a Filippo Filippelli, direttore del Corriere italiano, giornale legato al partito fascista.
Interrogato Filippelli, questi riferì di aver noleggiato l’auto per conto di Amerigo Dumini, fiorentino, ispettore viaggiante del giornale, uomo di fiducia di sua eccellenza Cesare Rossi, a sua volta uomo di fiducia del duce e capo del suo ufficio stampa. Il direttore del Corriere italiano disse che Dumini gliela aveva chiesta per far vedere Roma a certi camerati venuti dal Nord, soggiornanti con lui in un albergo del centro, il Dragoni, posto di fronte al Palazzo del governo, dove Dumini era di casa, avendo lì aperto un suo personale ufficio commerciale.
Fu accertato che Dumini, la sera del dieci, era tornato con la macchina, chiedendogli il favore di nasconderla da qualche parte. Lui la fece portare nel garage privato di un suo redattore capo che interrogato riferì di aver visto l’auto sporca di sangue, con il vetro sfondato e la tappezzeria malridotta. L’auto fu rintracciata da un carrozziere di fiducia di Filippelli dove era stata portata per essere riparata. Pennetta si persuase che se rapimento c’era stato, questo non poteva che giovare al capo del governo che aveva un valido movente per liberarsi di un pericoloso oppositore politico che avrebbe potuto far crollare il regime. Quell’auto usata da uomini vicini al duce poteva esserne la prova…”
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Dal romanzo “Il giudice e Mussolini” di Raffaele Vescera
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