DI ALFREDO FACCHINI
La fine del nazismo
Il 30 aprile 1945, tra le rovine annerite del Reichstag, un soldato sovietico pianta una bandiera rossa nel cuore della bestia morente. È il segno: il Nazismo è finito.
Berlino, la capitale del terrore, viene espugnata dai figli della steppa, dai contadini in divisa, dai minatori, dai ragazzi strappati ai villaggi e mandati a morire sotto le raffiche della Wehrmacht.
Qualche giorno dopo, l’Armata Rossa entra nella città distrutta. Non è un’entrata elegante, non è Hollywood: è Stalingrado che torna indietro a riscuotere il suo debito di sangue.
Dietro quella bandiera ci sono ventisette milioni di morti sovietici. Capito Mattarella!!!
Non numeri: nomi cancellati, famiglie spezzate, città bruciate, inverni di fame, estati di trincee. C’è il sacrificio titanico di un popolo che ha spezzato la schiena alla macchina da guerra hitleriana, metro dopo metro, casa dopo casa.
Oggi, alcuni — con l’aria pulita di chi non ha mai avuto la Storia sulla pelle — si permettono di parlare di “equivalenze”, di “totalitarismi gemelli”, di “dittature speculari”.
Chi portò la bandiera rossa a Berlino non fu un carnefice: fu un liberatore.
Quanto poi agli errori del comunismo sovietico: quella è un’altra storia. La memoria, quando è limpida, distingue tra chi ha marciato per conquistare e chi ha marciato per resistere. Tra chi ha costruito i forni e chi li ha abbattuti. Tra l’orrore e l’errore.
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Alfredo Facchini