“C’È ANCORA DOMANI”

Di ALEX ORIANI

In un’intervista televisiva Paola Cortellesi, parlando del suo film d’esordio come regista “C’è ancora domani”, dichiara di essersi posta fin dall’inizio come obiettivo il fatto che i due protagonisti maschili, il marito e il suocero della protagonista, fossero due personaggi “stupidi e privi di qualsiasi fascino” al punto che nessuno spettatore potesse trovare in loro “nulla di attraente e degno di imitazione”. È una dichiarazione artisticamente surreale ma perfettamente in linea con i tempi: è come se Thomas Harris nel suo romanzo e Jonathan Demme nell’adattamento cinematografico si fossero dati come obiettivo quello di rappresentare un Hannibal Lecter stupidamente feroce e privo di qualsiasi charme e dote intellettuale, oppure come se Francis Ford Coppola in Apocalypse Now avesse avuto come missione quella di rappresentare un colonnello Kurtz, ispirato al Kurtz di Cuore di Tenebra di Conrad, del tutto privo di intelligenza e grandiosità, un uomo spietato e crudele avvolto in una tetra oscurità da cui nessuno spettatore potrebbe mai sentirsi attratto. Eppure Paola Cortellesi, una donna della cui intelligenza non credo si possa dubitare, non solo ha sentito questa necessità ma ha anche ritenuto giusto rivendicarla pubblicamente, il che sembrerebbe un paradosso se non fosse che non lo è, non in una fase storica in cui ci stiamo sempre più convincendo che le storie non debbano solo essere interessanti e coinvolgenti, ma debbano anche mostrarci in modo inequivocabile esempi positivi da seguire e negativi da condannare.
Il film rispecchia perfettamente la dichiarazione d’intenti della regista: i personaggi del marito e del suocero sono dei cattivi a tutto tondo che non hanno mai un tentennamento, un momento di debolezza oppure sono semplicemente distratti dalla loro ottusa malvagità. Non si tratta certo dei primi cattivi 24/7 della storia del cinema, qui però ci troviamo di fronte all’aggravante che, oltre ad agire da cattivi, i nostri protagonisti non perdono una battuta per ribadire il concetto. I primi quattro-cinque dialoghi del personaggio di Mastandrea dicono tutti la stessa cosa, a volte ripetendola e rilanciandola: io sono il maschio dominante, tu sei la donna sottomessa, io comando, tu obbedisci. Questa impostazione finisce per danneggiare anche scene molto ben costruite come quella in cui (spoiler) il neo marito della figlia della protagonista compie un improvviso switch nei confronti della sua sposa mettendo subito in chiaro che lei non avrebbe più lavorato e, di fronte al legittimo sconcerto della ragazza, tronca la conversazione con un ringhioso “Tu sei mia”. Ecco, qui l’applicazione della sempre valida regola less is more avrebbe aiutato.

Una volta stabiliti i ruoli e comunicato a la “script for dummies” al pubblico chi sono i buoni e chi i cattivi ci si aspetterebbe una maggiore variabilità nei dialoghi dei due uomini, ma questo non accade; perfino nel film sugli ultimi giorni di Hitler “La caduta”, il più feroce personaggio del 20esimo secolo non è sempre uno stronzo.

Detto questo, però, pur con un certo fastidio per una serie di battute che più didascaliche non si potrebbe, il film decolla. Paola Cortellesi sa come costruire una scena, come renderla interessante e come darle ritmo. Al di là del bianco e nero più o meno ispirato al neorealismo, la regia è brillante, il montaggio a contrasto di musica contemporanea e immagini d’epoca è efficace, la trovata di inserire accenni di musical, che all’inizio lascia perplessi, trova poi una sua collocazione armonica nella narrazione. I personaggi femminili sono più interessanti e sfaccettati di quelli maschili (non ci voleva molto, qualcuno potrebbe dire), le scene di vita di quartiere sono gradevoli e, per quanto non eccellano in originalità, mai banali.
Insomma il film funziona e non annoia mai; il finale, poi, sorprende e chiude il cerchio di quella che è, fin dalle dichiarazioni della regista, un’opera manifesto con i pregi e i difetti delle storie che nascono con l’intento di mandare un messaggio.