“ADDIO ALLE URNE”, UN SAGGIO DI FRANCIS DUPUIS-DÉRI

DI LUCA BAGATIN

L’ideologia elettoralista, confondendo volutamente la democrazia con il regime parlamentare, ci porta a credere che tracciando una semplice X su una scheda elettorale si possa davvero influenzare la politica di un paese. Che ingenuità! La funzione del voto è ormai quella di mantenere viva un’illusione, la sovranità popolare, e di nascondere un’ovvietà: il potere politico è detenuto da altri”.

Questa la sintesi – riportata in quarta di copertina – del saggio “Addio alle urne” – edito recentemente in Italia da Elèuthera – di Francis Dupuis-Déri, canadese, insegnante nel Dipartimento di Scienze politiche dell’Università del Québec a Montréal e già ricercatore presso il Massachussets Institute of Technology di Boston.

Dupuis-Déri, ricorda come, sia negli USA che in Francia, uscite entrambe dalle rivoluzioni borghesi del XVIII, i rispettivi Padri fondatori, non abbiano mai preteso di fondare delle democrazie, in quanto non volevano affatto che i rispettivi popoli potessero governarsi direttamente, come invece avveniva nell’Antichità, ad Atene.

Il loro modello non era Atene, ma Roma” – scrive Dupuis-Déri – “con il suo senato, le elezioni e l’assenza di assemblee popolari”.

Dupuis-Déri spiega, in particolare, come già ai tempi dell’Antica Roma, il politico Quinto Tullio Cicerone, facesse presente ai candidati – nel suo “Manualetto di campagna elettorale” – che l’elettorato preferisce “una menzogna da parte tua piuttosto che un rifiuto” e che “ciò che è indispensabile è conoscere i nomi degli elettori, saperli adulare, frequentarli, mostrarsi generosi, curare la propria reputazione, e suscitare forti speranze per il modo in cui sarà condotta la cosa pubblica”.

In tal senso, spiega Dupuis-Déri, “Il mito della rappresentanza del popolo o nazione è profondamente antidemocratico, in quanto serve a convalidare il potere esercitato dai parlamentari sui loro concittadini, facendo loro credere di agire in loro nome e a loro vantaggio”.

In realtà, secondo quanto affermato nel saggio di Dupuis-Déri “Il sistema elettorale favorisce l’ascesa al potere di individui ambiziosi e arrivisti, sia sul fronte dei partiti progressisti che su quello dei partiti conservatori e reazionari”.

Dupuis-Déri ricorda, fra gli altri, la figura del rivoluzionario e filosofo scozzese John Oswald (1730 – 1793), il quale servì nell’esercito britannico in India e, successivamente, si unì ai rivoluzionari in Francia, ove prese parte alla celebre presa della Bastiglia e morì a difesa della Rivoluzione, oltre ad essere stato amico di Thomas Paine, eroe della Rivoluzione americana.

Oswald, secondo quanto ci riferisce Dupuis-Déri in “Addio alle urne”, trovava ridicolo il principio della rappresentanza politica e riassunse il suo pensiero nel breve saggio “Le Gouvernement du peuple”.

In esso, Oswald, fra le altre cose scrisse: “Confesso che non ho mai potuto pensare al sistema rappresentativo senza restare sorpreso dalla credulità, direi quasi dalla stupidità, con cui la mente umana abbocca alle più patenti assurdità. Se un uomo dicesse seriamente che la nazione deve pisciare per delega, lo si bollerebbe come un mentecatto: eppure pensare per delega è un’idea che non solo viene accolta senza sorpresa, ma addirittura con entusiasmo”.

Oswald proponeva, dunque, “un sistema libero dal parlamentarismo e costituito da una molteplicità di luoghi decisionali a livello locale, dove la gente potesse riunirsi e deliberare nelle assemblee popolari”. E, l’Autore prosegue: “Per le decisioni che richiedono un coordinamento su larga scala, proponeva un sistema federale in base al quale le assemblee locali potevano inviare dei portavoce per offrire consigli e informazioni ad altri portavoce, che li avrebbero poi riferiti alle loro assemblee locali, e così via”.

In tal modo, in sostanza, i portavoce, non avrebbero avuto il potere di prendere decisioni al di sopra delle assemblee locali, che avrebbero, invece, mantenuto ogni potere, compreso quello di rimuovere i portavoce medesimi.

In particolare, il saggio di Dupuis-Déri, fa presente come le cosiddette “democrazie parlamentari” o “rappresentative” siano state create nel Medioevo e che a ideare i parlamenti siano stati i Re e non certo rappresentanti delle classi popolari.

Inizialmente, infatti, si trattava di raduni occasionali nei quali il Re radunava i “grandi del Regno”, per introdurre nuove tasse. Il parlamento, inizialmente, era una sorta di riunione dei nobili, alla Corte del Re. Nel corso dei secoli, tali raduni, divennero occasioni per i nobili per esporre lamentele al Sovrano e chiedere rivendicazioni.

Solo con la Rivoluzione francese si arriverà al sistema parlamentare come lo conosciamo, ma anche lì, a comandare, furono sempre delle élite ristrette, che peraltro escludevano del tutto le donne e i rappresentanti del cosiddetto Quarto Stato, ovvero i settori più poveri e proletari.

Il saggio di Francis Dupuis-Déri, che è un vero e proprio excursus storico relativo all’elettoralismo e alla necessità di superarlo, per approdare alla democrazia autentica e diretta, è molto interessante, anche perché è una critica a chi critica a prescindere l’astensionismo, spesso attivo, che molti cittadini, da tempo, mettono in atto. In quanto preferirebbero auto-rappresentarsi e auto-gestirsi, come vorrebbe l’essenza stessa della democrazia.

In questo senso è molto interessante anche la postfazione di Moreno Mancosu, ricercatore di sociologia politica presso l’Università degli Studi di Torino, analista, in particolare, di comportamento elettorale.

Mancosu, ad esempio, analizzando le elezioni politiche italiane del 2018, in cui hanno votato circa 34 milioni di cittadini, ravvisa come il peso di ogni singolo voto, ovvero la capacità di spostare le percentuali effettive dei partiti, corrisponda allo 0,0000029%. Praticamente nulla, in sostanza.

Francis Dupuis-Déri, conclude il suo saggio affermando come, piuttosto che sprecare energie incardinandole nei processi elettorali, sarebbe molto più utile e razionale incanalarle “verso le comunità, le mobilitazioni popolari e i movimenti sociali, per lavorare alla costruzione di società che incarnino davvero la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà e l’aiuto reciproco”. Attraverso un processo che guardi al “campo della democrazia (diretta) e dell’autogestione”.

Del resto, due propugnatori della democrazia popolare e del socialismo, nonché dei fondatori della Prima Internazionale dei Lavoratori del 1864, ovvero Karl Marx e Michail Bakunin, pur essendo diversissimi fra loro, su questo campo la pensavano in modo assai simile.

Marx, infatti, affermava: “Agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno, quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li opprimerà in Parlamento!”.

L’anarchico Bakunin, per contro, scriveva cose piuttosto simili, ovvero “Democrazia rappresentativa – forma di Stato, fondata sulla pretesa sovranità, di una pretesa volontà del popolo che si suppone espressa da sedicenti rappresentanti del popolo in assemblee definite popolari, riunisce in sé le due principali condizioni necessarie al loro progresso: la centralizzazione dello Stato e la reale sottomissione del popolo sovrano alla minoranza intellettuale che lo governa, che pretende di rappresentarlo e che infallibilmente lo sfrutta”.

Luca Bagatin

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