UN ROMANZO SULL’ORLO DELL’ABISSO

Di Mariano Sabatini

Dopo tanti apprezzati romanzi, lo scrittore napoletano Ariase Baretta, che vive a Bologna immerso nella sua musica e nel riverbero dei film più amati, arriva nelle librerie con la storia scabra e affilata di due bimbi abusati. Nelle grinfie di genitori diversamente malvagi, presi da se stessi e dai propri attraversamenti. Così egocentrici da confondere la propria esistenza con quella delle creature che dovrebbero proteggere. “Cantico dell’abisso” (pubblicato da Arkadia, nella collana Sidekar) è un romanzo “dovuto”, in primo luogo dall’autore a se stesso e poi a chi avrà la forza, la voglia e le capacità di frugare negli anfratti della perversione, delle umane bassezze, della sopraffazione. Nella speranza di sconfiggerle. Un romanzo, dicevamo, che non potrà lasciare indifferenti gli animi empatici; sostenuto dalla scrittura di Barretta -uomo nato per scrivere – che si conferma un’esperienza psichedelica, in grado di dilatare gli stati di coscienza.

– È stato doloroso scrivere Cantico dell’abisso?

Moltissimo, anche perché si tratta di una storia basata su fatti reali. Ma scriverla è stato anche un modo per consegnare quel dolore alla memoria e far sì che possa essere utile agli altri. Purtroppo è necessario parlare di certi argomenti, affinché si attivino dei meccanismi di riflessione. Ciò di cui non si parla finisce col non esistere.

– Ma trascrivere certe storie che “vengono a trovarci” è liberatorio o scatena una sofferenza che permane?

Entrambe le cose. In alcuni casi, prima si scatena il dolore, poi si attiva la scrittura come momento catartico e di liberazione della memoria emotiva. Non a caso la scrittura è usata anche nella terapia di alcune psicopatologie. La mia amica Ilaria Palomba, scrittrice che amo molto, è una vera esperta di queste dinamiche e ha lavorato con pazienti affetti da vari disturbi. Si tratta di un campo della scrittura che trovo molto affascinante.

– Il dovere della letteratura è suscitare domande o dare risposte?

La questione del ruolo della letteratura, e dell’arte in genere, è una vexata quaestio che nessuno potrà mai risolvere. Per me la letteratura deve far vacillare le sovrastrutture mentali tanto di chi legge come di chi scrive. Questo processo si può attivare attraverso vettori di vario tipo, per questo motivo trovo che la distinzione tra cultura alta e cultura di massa abbia poco senso. Sono appassionato di letteratura e cinema di genere e ho trovato domande e risposte per me importanti sia in Dostoevskij che nei film di Lucio Fulci.

– Davide compie la sua trasformazione, superando un’infanzia infernale. Ma perché l’infanzia, in un modo o nell’altro, è sempre così ustionante?

Tanti studi dimostrano che è durante l’infanzia che si definisce la personalità dell’individuo. Soprattutto, pare che nei primi anni di vita si determini la nostra predisposizione a essere persone felici. Eppure, l’attenzione rivolta dalla società alla salute psichica dei bambini è davvero nulla. Si considerano ancora legittime le punizioni fisiche come parte del processo educativo, ma ciò che è peggio è che con molta facilità si umiliano i bambini pensando che crescendo dimenticheranno tutto. Non è così. Non si dimentica nulla. Io non ho dimenticato nulla.

– Raccontare il male è più interessante che rappresentare il bene, la gioia, la serenità?

Tutti questi aspetti del sentire umano meritano di essere raccontati. Io sono considerato uno scrittore molto cupo, eppure in alcuni dei miei romanzi ci sono pagine che in tanti hanno trovato divertenti e piene di luce. Credo che ci debba essere spazio per ogni tipo di emozione. Certo, il bene, la gioia e la serenità attirano più facilmente i lettori, ma qualcuno deve pur dar voce a chi non può farsi sentire. E la voce di chi non può farsi sentire molto spesso si esprime attraverso la semantica del male e del dolore.