“Mercati vergogna” che nelle guerre ingrassano

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Valerio Sale da REMOCONTRO – 

«Compra al suono dei cannoni, vendi al suono delle trombe». Lo disse Nathan Mayer Rothschild durante le guerre napoleoniche. Oltre due secoli dopo, il motto risuona ancora nelle Borse mondiali. I mercati temono l’incertezza, ma quando inizia la guerra vera e propria, allora la logica e il cinismo rimettono in moto gli investimenti.

Quando la guerra diventa la sola certezza

Alle prime notizie dell’attacco israeliano all’Iran, il Dow Jones ha perso il 1.8% e il Nasdaq 1.3%. I titoli delle compagnie aeree sono calati in previsione di un aumento dei costi del carburante, ma i produttori di armamenti Lockeed Martin e Northtrop Grumann sono cresciuti. In Europa Rheinmetall ha registrato un 3.46% e l’italiana Leonardo +1,46%. Melissa Brown, direttrice degli investimenti di SlmCorp, rispondendo a Reuters, è ottimista: «Ci sono molti studi che dimostrano che sul lungo termine le guerre non hanno un grave impatto sul mercato azionario. Se la guerra rimane all’interno dei confini regionali in cui si sta svolgendo, ritengo che gli investitori torneranno al loro obbiettivo principale che è quello di ottenere tassi più bassi dalla Fed ed evitare la recessione. L’aumento dei prezzi petroliferi è gestibile così come lo è stato in passato».

Gestire i “danni” ma non le vittime

Vittorio Carlini sul Sole 24 ore procede con un’analisi storica dei mercati di guerra che non lascia dubbi alla convenienza che offrono ‘i mercati di guerra’. Si richiama uno studio dell’analista Mark Hulbert, che ha preso in esame sette conflitti tra il 1983 e il 2011 (da Grenada alla Libia, passando per Panama, Iraq, Afghanistan e le due guerre del Golfo).  Viene dimostrato che nel mese che precede lo scoppio della guerra l’S&P 500 scende in media dello 0,6%. Nei 30 giorni successivi, però, guadagna il 4%. Ed entro sei mesi l’incremento medio raggiunge il 7,2%. Ma non è tutto. «Lo schema del ‘rally di guerra’ non si limita a guerre recenti. Anche nella prima parte del Novecento ha trovato piena conferma.

Le due guerre mondiali

Durante la Prima guerra mondiale il Dow Jones è salito del 21,2% al netto dell’inflazione. Nella Seconda guerra mondiale addirittura del 23%, secondo i calcoli del Sole 24 Ore. Durante il lungo conflitto in Vietnam, tra il 1964 e il 1973, segna un rialzo del 20,5%.  Le due guerre del Golfo, nel 1991 e nel 2003, hanno avuto impatti simili: shock iniziale, poi ripresa». La guerra quindi genera grandi movimenti di capitali, nuove priorità politiche e riconversioni industriali, come si sta dimostrando anche in Europa, nella Germania del cancelliere Merz. Per gli operatori finanziari queste diventano occasioni di guadagno. Fino a qui è storia ed è lecito pensare che essa si ripeta anche nella situazione attuale.

Ancora guerra-mercato?

La variante più rischiosa che è oggi sul tavolo degli analisti è l’aumento delle quotazioni del petrolio. Il pericolo che possa produrre un maggiore rischio di inflazione è reale e il ciclo di allentamento dei tassi da parte delle banche centrali potrebbe incontrare degli ostacoli. Questa settimana la Banca del Giappone e la Fed americana si riuniranno in sessioni che assai difficilmente toccheranno i tassi d’interesse. La nuova ‘variabile energia’ crea un contesto dove il pericolo di recessione è aumentato, malgrado l’industria delle armi ne tragga vantaggio. La direzione degli investimenti necessita di più canali e i segnali che arrivano dal commercio internazionale non erano incoraggianti già da prima dell’inizio del conflitto.

Troppe giravolte “trumpiane” sul mondo

Usa, Cina ed Unione Europea sono da mesi sotto la pressione della guerra commerciale di Trump. I listini azionari hanno scontato l’incertezza e sono risaliti sulla scorta delle giravolte di Trump. Ma sono i dati macroeconomici che preoccupano, soprattutto l’Europa che è l’economia più sotto la minaccia del fabbisogno energetico. Secondo i dati dell’agenzia statistica Eurostat, il surplus complessivo dell’UE nel commercio di merci è sceso a 7,4 miliardi di euro (8,5 miliardi di dollari) dai 12,7 miliardi di euro di aprile 2024. Le esportazioni UE verso la Cina sono diminuite per il nono mese consecutivo.

Energia il vero “campo di battaglia”

«L’energia diventa un campo di battaglia in Medio Oriente», titola il Financial Times. Gli analisti sono fiduciosi anche sulla capacità di deterrenza americana nei confronti delle possibili minacce iraniane di chiusura dello stretto di Hormuz, ma restano su posizioni di cinico attendismo, come dichiara il Wall Street Journal: «Israele ha inferto un duro colpo al programma nucleare iraniano, ma non è ancora un knockout».

“Tutto lascia intendere che i prossimi giorni saranno determinanti per garantire la continuità al fabbisogno energetico di economie già in bilico tra crescita debole e minacce di recessione. Con le dovute distinzioni strategiche tra Paesi a indipendenza energetica ed economie più vulnerabili, prima fra tutte l’Unione Europea.”

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Articolo di Valerio Sala dalla redazione di
16 Giugno 2025