BREXIT, DOPO DUE ANNI I BRITANNICI SI FANNO I CONTI IN TASCA

DI VIRGINIA MURRU

 

Sono trascorsi due anni dall’entrata in vigore della Brexit, e ormai economisti ed esperti hanno tracciato un percorso di analisi abbastanza impietoso circa i riflessi e le implicazioni che ha avuto sull’andamento negativo dell’economia britannica negli ultimi anni.

In definitiva una rivalsa dei ‘Remain’ che avevano anzitempo vaticinato un futuro all’insegna di problemi e conseguenze direttamente associati al cambiamento di rotta nel Regno Unito: non vedevano l’ora di saltare ‘il fosso’, ma poi in quella deriva ci sono finiti.

Abbandonare un mercato di oltre 550 milioni di abitanti, ovvero la popolazione dei paesi membri dell’Ue, non è stato uno scherzo, se si pensa all’importanza di import ed export, non più alle condizioni privilegiate di quando il Regno Unito ne faceva parte. Solo nel 2021 c’è stata una flessione nell’export superiore al 40%.

Il deficit rilevato in questo versante dalla bilancia commerciale è stato veramente una delle cause che hanno indebolito la sterlina, e fatto vacillare il settore finanziario. Nonostante la svalutazione, processo negativo iniziato già all’indomani della vittoria dei ‘Leave’, l’impatto sulla bilancia commerciale è stato quasi irrilevante, specie negli anni successivi.

Nella stessa City tantissime società, in seguito all’entrata in vigore della Brexit, hanno migrato all’estero senza tanti sentimentalismi (soprattutto a Parigi). La City, roccaforte e cuore finanziario del Regno Unito e dell’Europa, stella polare dei mercati e punto di riferimento a livello globale, ha perso qualcosa in termini di autorevolezza. La tanto bistrattata Unione Europea era  stata in definitiva una solida colonna che aveva contribuito a tenere saldo un impianto finanziario che non temeva raffiche, da qualunque parte del pianeta provenissero.

Alla City questo lo sapevano bene, per questo hanno osteggiato fino alla fine la Brexit. Ma tant’è: l’ostinazione dei britannici è nota, e a nulla sono valsi gli ultimi tentativi della Corte Suprema di mettere in discussione la legittima investitura di una volontà popolare, che aveva superato il referendum con appena due punti percentuali  sugli accaniti avversari, che non volevano lasciare l’Europa.

La Corte Suprema ci aveva provato la prima volta con Theresa May, nel 2017, quando le aveva imposto la deliberazione del Parlamento circa i tempi da rispettare per i negoziati con l’Ue. E poi nel 2019, quando Johnson aveva deciso di sospendere il Parlamento, per evitare che gli intralciasse la strada nella sua corsa verso l’abbandono dell’Europa.

Si pronosticava una catastrofe per la City, e in fin dei conti i danni sono stati contenuti, ma i colpi ci sono stati e ancora persistono, anche se il dovere verso la resilienza ha fatto in  modo che il sistema tenesse.

L’economia, tuttavia, da diversi anni ormai ha iniziato a deragliare, e il Paese è sul limite della recessione: si stima che nel 2023 il Pil andrà in contrazione a -1,4%. Il Governo cerca di ricucire strappi con la manovra economica, bypassando anche la tempesta finanziaria di ottobre scorso, soprattutto di colmare la crepa di 55 miliardi di sterline nei conti pubblici.

Una manovra che costerà ai sudditi di re Carlo forti sacrifici, dato che l’unico modo di regolare i conti è stato quello di attingere risorse tramite l’inasprimento della tassazione, mannaia che ricadrà su famiglie e imprese. E su questa linea si è deciso di tagliare anche la spesa pubblica, con interventi sicuramente impopolari, ma necessari per un bilancio più accettabile.

In rilievo anche i dissesti sul piano politico, e il senso di disorientamento che ha accompagnato gli ultimi governi, già durante l’esecutivo di Theresa May, i primi segni d’instabilità sono cominciati proprio allora per i Tory, che non hanno saputo gestire la transizione, e quel ponte è diventato una struttura con fondamenta di argilla, che ha espresso e trasmesso senso d’incertezza, soprattutto sulla popolazione.

La Brexit ha fallito anche sull’immigrazione, leva che è stata determinante per le scelte dei ‘Leave’ nel 2016, gli inglesi miravano proprio a respingere l’esercito di immigrati che bussava alle porte del Regno per un lavoro.

Lo ha constatato a sue spese lo stesso premier Johnson nell’ultimo trimestre del 2021, allorché è venuta a mancare la manodopera straniera, e a fine settembre dello scorso anno ha dovuto concedere il visto a 11mila immigrati. Anche se i Tory hanno escogitato di tutto con le dichiarazioni al riguardo, per assicurare che avrebbero fatto a meno degli stranieri dopo un’adeguata formazione professionale dei lavoratori britannici.

Considerando i dati macro dell’economia britannica, a due anni di distanza dal ‘Leave’, il bilancio è piuttosto critico, gli stessi quotidiani inglesi insistono sulla debacle, definendo l’esito del referendum  quasi un fallimento. E’ mancata la riscossa che si dava per certa, e i settori più danneggiati sono proprio quelli che si pensava ne avrebbero tratto più vantaggio.

La sterlina ha perso parte della sua forza e ha reso più povere le famiglie britanniche.  il costo delle importazioni, dopo la rottura degli accordi con l’Ue, ha comportato un conseguente aumento dell’inflazione (che oscilla intorno al 10,5%) e minore crescita dei salari reali. Secondo le stime dell’International Economic Review, la Brexit ha fatto aumentare i prezzi al consumo del 2,9%, costando alla famiglia media 870 sterline all’anno.

La City stima che nel 2023 l’inflazione potrebbe schizzare fino al 18%, e non è incoraggiante per un’economia che allunga il passo verso un serio andamento recessivo.

I quotidiani inglesi fanno a gara con gli strali alla Brexit, e senza tanti preamboli la ritengono la causa prima della crisi economica alla quale gli ultimi tre esecutivi, che si sono alternati nel volgere di pochi mesi, non hanno saputo dare una risposta credibile.

In un articolo di John Harris, giornalista del Guardian Uk, si leggeva poche settimane fa: “ La Gran Bretagna si sta lentamente svegliando sulla verità: la Brexit ci ha lascito più poveri, alla deriva e soli.”

Sempre nello stesso articolo si riporta il parere di un personaggio autorevole, Peter Cook, il quale sostiene in merito alla Brexit:

“Io la chiamo ‘Britastrophe’ (catastrofe-britannica). La Brexit è stata un disastro, e il Covid ha portato la crisi. Se unite la crisi al disastro, ottenete una catastrofe. ‘Britastrophe’ ha diviso e indebolito il Paese, sia politicamente che economicamente”.

“I call it ‘Britastrophe,’“ said business consultant, author, musician and anti-Brexit campaigner Peter Cook. “Brexit has been a disaster and COVID has been a crisis. If you put a crisis and a disaster together, you get a catastrophe. ‘Britastrophe’ has divided and weakened the country politically and economically.”