Separare le carriere significa spezzare l’unità della magistratura

DI PIERO GURRIERI

 

Separare le carriere significa spezzare l’unità della magistratura

«Una separazione delle carriere può andar bene se resta garantita l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero. Ma temo che si voglia, attraverso questa separazione, subordinare la magistratura inquirente all’esecutivo. Questo è inaccettabile».
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Così Giovanni Falcone, La Repubblica, 25 gennaio 1992.
«Separare le carriere significa spezzare l’unità della magistratura. Il magistrato requirente deve poter svolgere la sua funzione senza dover rendere conto al potere politico».
Così Paolo Borsellino, Samarcanda, 23 maggio 1991.
E in una lettera privata Borsellino fu ancora più chiaro: la separazione era, per lui, «un cavallo di Troia per disarticolare la forza unitaria dell’azione giudiziaria».
È il tempo di finirla con le frottole, e con la propaganda politica. Ecco la verità, limpida, documentale, definitiva, che ho provato a documentare nel mio libro Divide et impera, un atto di accusa contro questa riforma. Falcone e Borsellino furono contro la separazione delle carriere. Ne temevano l’esito autoritario, la gerarchizzazione, la subordinazione del pubblico ministero al potere politico, la fine dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Avevano intuito che la posta in gioco era la libertà stessa della giustizia.
Oggi, invece, chi governa sta dall’altra parte. Dalla parte di chi vuole un pubblico ministero che non disturbi, che non indaghi troppo in alto, che obbedisca. Dalla parte di chi confonde l’autonomia con un privilegio e l’indipendenza con un fastidio. Dalla parte di chi vuole che il potere politico possa finalmente mettere le mani sulla giustizia. E d’altra parte, Meloni è stata chiarissima. Due giorni fa, dopo lo stop della Corte dei Conti al Ponte, ha sibilato: “Ecco a cosa servono le riforme”. A chiudere la bocca ai giudici.
E allora, facciamo udire a tutti queste parole di Falcone e Borsellino. Anche perchè è un insulto alla loro memoria, un uso a buon mercato dei loro nomi, una propaganda cinica e senza pudore dire, come stanno facendo, che erano favorevoli. Tanto che anche il cognato di Falcone, Alfredo Morvillo, ha gridato la propria indignazione: «Questo è il solito giochetto: usano il nome di Falcone come prova della bontà delle loro tesi (…). Dico a Nordio di lasciar riposare in pace i morti. Vada pure avanti con le sue riforme, anche più inutili di questa, ma la smetta di citare a sproposito il nome di chi non c’è più e non può replicare».
Falcone invocava una «specializzazione» del pubblico ministero. Mai sostenne lo sdoppiamento delle carriere. Lo dimostra la sua stessa biografia professionale: pretore, giudice, pubblico ministero, magistrato fuori ruolo al ministero, procuratore aggiunto. La mobilità interna era per lui risorsa, non pericolo. E l’unità della giurisdizione, un presidio democratico.
Chi oggi spaccia frasi decontestualizzate, chi trasforma la memoria di Falcone in un grimaldello per legittimare una riforma che lo stesso Licio Gelli voleva – sì, proprio Gelli, il capo della P2 – mente dunque al Paese. E lo fa consapevolmente.
Non staremo in silenzio. E non lo faremo nemmeno davanti agli insulti, perché l’insulto è la confessione di chi non ha risposte. Di chi, nel vuoto argomentativo, cerca rifugio nell’aggressione. Noi rispondiamo con il diritto, con la storia, con le fonti. E, soprattutto, con rispetto. Quel rispetto che si deve a chi ha dato tutto per la giustizia. Anche la vita. E che merita di non essere più usato, né tradito.
Piero Gurrieri
Avvocato, Direttore di Reti di Giustizia – Autore del libro “Divide et impera: la separazione delle carriere e i rischi di eterogenesi dei fini”