DI ALFREDO FACCHINI

Semplicemente Pasolini

Noi che abitiamo il suo presagio, non abbiamo ancora trovato il modo di uscirne
Cinquant’anni. Il 2 novembre 1975, all’Idroscalo di Ostia, Pier Paolo Pasolini viene ammazzato.
Avevo quindici anni. Ricordo quei giorni come un brusio collettivo che attraversava le case, le voci, le scuole. Un clamore sporco, sospeso tra la cronaca nera e il lutto civile. Nelle edicole le foto del corpo. In televisione, il moralismo dei vivi.
Pochi mesi dopo, in casa, sulla mensola della libreria di mia sorella, appare un volume: Scritti corsari. Copertina rossa, titolo bianco. Mi ci tuffo senza sapere bene in cosa sto entrando. Non era solo un libro. Era un ordigno.
«Noi siamo un paese senza memoria
Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero.»
Quelle righe erano la radiografia di un male che non avevo ancora imparato a nominare: il conformismo, la mutazione, la resa. Non tutto, però, mi suonò vicino come, per esempio, le sue tesi sui capelloni o sui poliziotti. Ma da lui non cercavo consolazioni: cercavo uno sguardo capace di spogliare la realtà, anche quando bruciava.
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Del resto, Pier Paolo Pasolini è stato un intellettuale scomodo, irriducibile, un corsaro. Ma, fino in fondo, fieramente antifascista. «Il fascismo è la codificazione del fondo brutalmente egoista di una società.»
Non c’è definizione più precisa, più tagliente. Il fascismo, per Pasolini, non è solo una stagione politica: è un carattere nazionale, un istinto di sopraffazione che si rinnova nei linguaggi, nei consumi, nelle relazioni.
È l’egoismo come ideologia di massa.
A Pasolini non mancava il coraggio civile: il coraggio di dire quando tutti tacevano, di esporsi sapendo che gli sarebbe costato caro.
«Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani.»
“Io so”
Due parole che pesano ancora. Non un atto di fede, ma di conoscenza politica. Pasolini sapeva e per questo andava eliminato. Sapeva che il potere aveva cambiato volto, che la televisione stava educando l’obbedienza, che il nuovo fascismo sarebbe stato modernizzato, accettato.
In Lettere luterane Pasolini va oltre la denuncia. Il potere, scrive, non si limita a governare. Vuole educare, plasmare, normalizzare. Non si accontenta più dell’obbedienza esteriore: pretende di entrare dentro i corpi, dentro le teste, di riscrivere i desideri. È un potere pedagogico e insieme feroce, che usa la violenza e l’intimidazione non per reprimere, ma per modellare. Vuole cittadini che si sentano liberi mentre vengono addestrati, consumatori felici della propria alienazione. Un potere che non ha bisogno del manganello, perché ha già colonizzato l’immaginario.
Cinquant’anni fa. Pasolini lo aveva capito prima di tutti. La vera dittatura non è quella dei carri armati, ma quella del consenso. L’omologazione di massa, la cancellazione del dissenso, la riduzione della diversità a folklore. Il nuovo fascismo, scriveva, è «un sistema di valori che coincide perfettamente con i valori della produzione e del consumo.»
Eccola, la diagnosi finale
«La tragedia è che non ci sono più esseri umani. Ci sono strane macchine che sbattono una contro l’altra. E questa tragedia è iniziata con quell’universale, obbligatorio e perverso sistema di educazione che forma tutti noi: dalle cosiddette classi dirigenti, giù fino ai poveri, che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto, ogni cosa, a tutti i costi. Ecco il motivo per cui vogliono tutti le stesse cose e si comportano allo stesso modo.» Bisognerebbe impararlo a memoria.
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Una società che ha smesso di pensare, che non conosce più l’empatia né la misura. Senza più memoria, senza più coscienza. Pasolini lo aveva visto arrivare mezzo secolo fa.
E noi, che abitiamo il suo presagio, non abbiamo ancora trovato il modo di uscirne.
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Pasolini non è stato un santo né un martire, ma un uomo che ha avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà e di non abbassare mai lo sguardo.
«Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine.»
Lì dentro, c’è tutta la sua condanna.
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Alfredo Facchini