La sedia del carnefice

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

La sedia del carnefice

Venti civili palestinesi, bendati e legati. Un soldato in posa

Un terrorista israeliano siede su una sedia pieghevole. Davanti a lui, una ventina di uomini palestinesi in tuta bianca, bendati, con le mani legate dietro la schiena, inginocchiati sulla sabbia di Khan Younis. Gaza. L’immagine, pubblicata dallo stesso militare sui social, non è stata rubata, non è frutto di infiltrazioni giornalistiche. È stata condivisa. Rivendicata. Come un trofeo.
Questa fotografia non è solo la documentazione di un crimine. È la sua celebrazione. È l’istantanea di un’occupazione che ha smesso persino di nascondersi, che non teme più il giudizio del mondo perché sa che il mondo, troppo spesso, distoglie lo sguardo. Quando non è totalmente complice.

Venti civili palestinesi. Rapiti, umiliati

Non prigionieri di guerra, non combattenti: civili. Uomini strappati alle loro case, alle loro famiglie, in attesa di chissà quale destino. E mentre loro sono lì, impotenti nella polvere, il soldato terrorista immortala la scena.
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C’è qualcosa di atroce nella coreografia di questa foto. La sedia da campeggio, l’atteggiamento rilassato, la luce del tramonto che tinge tutto di un arancione quasi idilliaco. Come se quella fosse una scena qualunque, un momento di pausa durante una giornata di lavoro. E in effetti, forse per quel soldato terrorista lo è. L’occupazione, quando diventa routine, trasforma ogni atrocità in gesto quotidiano.
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Ma quella normalizzazione è il segno più evidente della degenerazione. Quando i carnefici non sentono più il bisogno di nascondere i loro crimini, quando anzi li esibiscono, significa che il tessuto morale di una società si è lacerato fino all’irriconoscibilità. Significa che la disumanizzazione dell’altro è completa.
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Quei venti uomini hanno nomi, famiglie, storie. Forse uno è padre, un altro insegnante, un altro commerciante. Ma nella logica dell’occupazione sono solo corpi da controllare, vite da cancellare. Foto da esibire. La benda sugli occhi non serve solo a impedire loro di vedere: serve a impedire a noi di guardarli negli occhi, di riconoscere in loro la nostra stessa umanità.
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E mentre questa immagine circola sui social, mentre viene condivisa, commentata, archiviata, il mondo continua le sue partite diplomatiche, le sue dichiarazioni di circostanza, i suoi appelli al “dialogo” e alla “moderazione”. Come se ci fosse ancora spazio per il dialogo quando una delle parti è inginocchiata, bendata e legata.
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La storia non dimentica queste immagini. Non ha dimenticato i prigionieri di Abu Ghraib, non dimenticherà i civili di Khan Younis. Ma la storia, da sola, non basta. Serve che chi guarda oggi abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Oppressione. Brutalità. Crimine. Genocidio.
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Alfredo Facchini