Gaza, una tregua rosso sangue

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Gaza, una tregua rosso sangue

È accaduto di notte, nel quartiere di Zeitoun, a est di Gaza City.
Un veicolo civile che trasportava undici persone – sette bambini, tre donne e un uomo – è stato centrato in pieno da un colpo sparato dell’esercito terrorista israeliano. Nessun combattente, solo una famiglia – Abu Shaaban – che cercava di tornare a casa dopo settimane di sfollamento. Sono tutti morti.
Secondo la Protezione civile di Gaza, il proiettile è stato sparato da un carro armato israeliano posizionato lungo la cosiddetta linea gialla, l’area di separazione fra le truppe di occupazione e le rovine dei quartieri orientali.
Il mezzo, ridotto a un relitto di lamiere, è stato trovato ancora fumante dai soccorritori, che hanno estratto i corpi dei bambini uno dopo l’altro. Un testimone, ha detto ad Al Jazeera:
“Stavano solo tornando a casa. Non avevano niente. Li hanno colpiti come se non fossero esseri umani.”

La strage arriva nel pieno della tregua di ottobre

Quella che avrebbe dovuto garantire una sospensione delle operazioni militari israeliane nella Striscia. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, da quando la tregua è entrata in vigore, almeno venti palestinesi sono stati uccisi in vari episodi simili: colpi di droni, fuoco di artiglieria, spari contro civili in movimento. La popolazione parla di “pace di carta”: una tregua violata a colpi di cannone, sotto gli occhi del mondo. “Non esiste un cessate il fuoco quando i carri armati restano ai margini delle case – ha dichiarato un medico dell’ospedale Al-Shifa – esiste solo un respiro sospeso, finché un’altra famiglia non viene cancellata.”

La domanda è: chi sono i veri terroristi?

Perché a Gaza, nella notte del 17 ottobre, undici persone sono state massacrate da un colpo israeliano.
Erano civili. Una famiglia intera. Sette bambini, tre donne, un uomo. Nessun combattente, nessuna base, nessuna minaccia.
Se Hamas avesse ucciso undici israeliani, oggi le prime pagine dei quotidiani occidentali sarebbero un bollettino di condanna unanime. Ci sarebbero speciali televisivi, dichiarazioni d’urgenza, parole come “atrocità”, “massacro”, “terrorismo”. Le cancellerie europee parlerebbero di “barbarie islamista”. Washington, Berlino, Roma avvierebbero nuove forniture d’armi a Israele “in nome della sicurezza”.

Ma quando è Israele a colpire

Quando è l’occupante a premere il grilletto, la parola terrorismo scompare. Si parla di “operazione militare”. Un eufemismo costruito su misura per l’Occidente. Nel linguaggio dei governi e delle agenzie stampa, il vocabolario del dolore ha una gerarchia: un bambino israeliano è una tragedia; un bambino palestinese è una cifra. Un colpo di Hamas è terrorismo; un colpo dell’IDF è autodifesa. È questa la grammatica coloniale del nostro tempo, dove la violenza diventa legittima solo se esercitata da chi ha il potere di definirla.
Ciò che è accaduto a Zeitoun non è un incidente. È un atto di terrore di Stato.
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Alfredo Facchini