DI PIERO ORTECA

Da REMOCONTRO –
Non siamo ancora all’allarme generale, ma poco ci manca visto l’eccezionale accumulo militare americano nei Caraibi. La Casa Bianca, titola il Wall Street Journal, «sta accumulando potenza di combattimento vicino al Venezuela». Fase di autoesaltazione di Donald Trump dopo il successo di Gaza, rischio di provare a chiudere vecchie crisi. E sarebbe una vera beffa, aver conferito un Premio Nobel per la Pace la cui eco potrebbe invece essere sfruttata per fare una nuova guerra.

Solo una dimostrazione di forza?
Dunque, il Pentagono sta spostando alcune delle sue unità e armi più avanzate più vicino al Venezuela, mentre aumentano le tensioni con il Presidente Nicolás Maduro che, per la verità, durano già da una vita. Ma che si sono esacerbate ulteriormente con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca. Anche perché alla contrapposizione politico-ideologica, si sommano le accuse di Washington, nei confronti del Venezuela, di agire come un vero e proprio narco-Stato. Cioè di tollerare, se non proprio di organizzare e gestire, un mastodontico traffico internazionale di droga, che come obiettivo finale ha spesso le strade degli Stati Uniti. Il governo di Caracas ha sempre rispedito al mittente le accuse, controbattendo che si tratta solo di alibi per cercare di attaccare l’autonomia nazionale venezuelana. Insomma, dice Maduro, quella della droga è solo una scusa, mentre la verità è che l’America ci odia perché non ci allineiamo ai suoi diktat. Ora, quasi paradossalmente, dopo l’assegnazione del Nobel per la Pace a Maria Corina Machado, il Venezuela è tornato fragorosamente alla ribalta. «Il rafforzamento militare statunitense nei Caraibi – scrive il Wall Street Journal – è il più grande nella regione in oltre tre decenni, dall’invasione americana di Panama. E non è ancora finito. Da agosto, il Pentagono ha schierato cacciatorpediniere lanciamissili, caccia F-35B, droni MQ-9 Reaper, aerei spia P-8 Poseidon, navi d’assalto e una nave segreta per le operazioni speciali. L’aumento è avvenuto mentre gli Stati Uniti hanno effettuato attacchi contro imbarcazioni, presumibilmente dedite al traffico di droga, uccidendo almeno 21 persone, di cui sei martedì nell’ultimo attacco effettuato. Il Presidente Trump ha lasciato intendere che i prossimi obiettivi potrebbero essere individuati e colpiti dentro ‘il territorio venezuelano’”». Trump sembra voler chiudere il conto.
Trump si considera già in guerra
È meglio chiarire subito che, formalmente, Trump ha preparato il terreno per rendere ‘legale’ (almeno dal punto di vista americano) qualsiasi forzatura contro il Venezuela. In pratica, il Presidente, con un memorandum trasmesso al Congresso Usa, ha comunicato che le forze armate degli Stati Uniti tratteranno come ‘combattenti illegali’ i membri delle gang che compongono i cartelli della droga. Il che equivale a equipararli a terroristi e guerriglieri. Questo tipo di interpretazione si estende, a maggior ragione, ai loro capi. L’intervento di Trump ha di fatto messo gli Stati Uniti in guerra non dichiarata con il Venezuela, dal momento che il Dipartimento di giustizia americano, lo scorso agosto, ha emesso un mandato di arresto per Maduro, come capo del cartello criminale di Soli, dedito al commercio internazionale di droga. Per cui, secondo questa procedura, le forze armate sotto il comando del Presidente del Venezuela, a cominciare dallo Stato maggiore, sarebbero tutte da incarcerare nell’evenienza di un crollo del regime. Questo in teoria. Perché poi, nella pratica, in caso di ‘default’ politico la gente getterebbe la divisa e scapperebbe a casa. Come già abbiamo visto in altre tristi epoche storiche, per altri disperati Paesi. E dentro il partito ‘chavista’ di Maduro sono ben coscienti di essere seduti sull’orlo di un vulcano, in procinto di esplodere.
Dentro il governo di Maduro
L’atmosfera di Palazzo Miraflores, sede del governo, si è fatta pesante e assomiglia sempre di più, ogni giorno che passa, a quella cupa del castello di Macbeth. La cronaca politica di questi ultimi giorni, che fa El Pais International, è indicativa di un clima di sfiducia e sospetto. «La leadership chavista, cioè i massimi funzionari del partito al governo in Venezuela, allineati all’ideologia di Hugo Chávez – scrive il giornale – guardano Internet inondata di resoconti di defezioni di massa nell’esercito, di conversazioni segrete tra la cerchia ristretta di Maduro e la Casa Bianca per consegnarlo e di piani per una transizione una volta deposto il governo. La maggior parte di queste affermazioni è impossibile da verificare. Si sta diffondendo la narrazione di qualcosa di imminente che sta per accadere. Nel frattempo, la flotta statunitense nei Caraibi è quanto di più reale si possa immaginare: navi d’assalto e sottomarini nucleari pronti a colpire le imbarcazioni in partenza dal Venezuela, presumibilmente trasportanti droga. Il Chavismo è impegnato in un tiro alla fune con Washington da almeno sei anni. Negoziati politici, accordi di rilascio dei prigionieri, licenze petrolifere, permessi di lavoro per le ONG e rispetto per l’opposizione – di cui resta ben poco – sono stati tutti argomenti di discussione tra i due Paesi. Maduro o Diosdado Cabello, il numero due del regime, potevano un giorno mantenere una forte retorica antimperialista e il giorno dopo sedersi al tavolo con gli inviati della Casa Bianca. Era un gioco del pendolo. Ora le cose sono diverse. ‘Al momento non esiste un canale di comunicazione aperto con la gente di Trump’, afferma qualcuno che ha familiarità con quei colloqui. Questo preoccupa i chavisti, che per la prima volta dalla Rivoluzione Bolivariana – che si è evoluta in uno stato monopartitico – temono sinceramente un conflitto armato. Maduro, Cabello e persino Jorge e Delcy Rodríguez, i principali operatori politici di Miraflores, diffidano delle intenzioni di Trump. Lo spettro dell’invasione getta un’ombra che gela chi si trova all’interno del palazzo».
Washington tra pressioni e ricatti
Caracas non è una democrazia, lo sappiamo. E Maduro è un autocrate che sicuramente sta al potere più con la forza che con i voti (quelli genuini). Ma, detto questo, quale principio governa la discriminante di intervento armato di un Paese straniero? Non certo quello morale, visto che, nel caso di Gaza, Usa ed Europa se la sono messa sotto la suola delle scarpe. La geopolitica, allora. Perfetto, una cosa che stringi stringi ha a che fare solo con gli interessi particolari: di una nazione, di un blocco, di un’alleanza. Niente giustizia. Washington ha sempre considerato l’America Latina il giardino di casa. Guai a metterci il naso. Nel 1962 abbiamo rischiato la Terza guerra mondiale, perché John Kennedy voleva impedire a Cuba (nazione sovrana) di installare missili nucleari russi. E fece il blocco navale. Se oggi il governo del Messico impazzisse e decidesse di allearsi con Pechino e installasse basi militari cinesi sul Rio Grande, sarebbe invaso dagli Stati Uniti in 24 ore. Si accettano scommesse. La verità è che ci sono tanti Venezuela e molti Maduro in giro per il mondo. E quasi tutti firmano contratti miliardari con Stati Uniti ed Europa e, per questo, nessuno li disturba. Detto ciò, in Venezuela finirà in modo ‘classico’: nessuna invasione militare.
“Ci sarà, prima o dopo, un ‘golpe’ benedetto da Washington e un compromesso tra l’opposizione e «facce presentabili del moribondo regime». Dietro alla neo premio Nobel ovviamente, premiata anticipatamente per quello.”
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Piero Orteca, dalla redazione di

16 Ottobre 2025