DI MARIO PIAZZA
Prima da dipendente e poi da imprenditore almeno una cosa l’avevo capita: la qualità del mio lavoro era indissolubilmente legata alla qualità della squadra, grande o piccola, che lavorava insieme a me. Neppure il campione mondiale di uno sport individuale come il tennis può fare a meno di una squadra per avere successo, e persino un idraulico o un autista non possono fare a meno di qualche buon collaboratore, fosse pure soltanto un commercialista o un meccanico fidato. Dalla qualità della mia squadra dipendeva non soltanto il successo del mio lavoro ma anche la qualità della mia vita privata, poter contare su gente in gamba significava più tempo libero e più serenità e per ricaduta più divertimento, più amici, più soddisfazioni.
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Per questo trovo assolutamente inconcepibile che qualcuno, anche della mia parte politica, consideri la parabola ascendente di Giorgia Meloni come una storia di successo. L’elenco dei suoi collaboratori inaffidabili, o stupidi, o disonesti, o traditori o anche solo semplicemente discutibili si sta allungando a dismisura a partire dai suoi ministri e sottosegretari per estendersi poi dal governo al partito, un secondo ircocervo dove convivono per puro interesse liberisti d’assalto, bombaroli neri, quaquaraquà semianalfabeti, leccaculi prezzolati e trafficoni di ogni specie.
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Nella tanto sospirata e rimandata conferenza stampa di oggi Giorgia Meloni elencherà puntigliosamente i suoi successi veri o presunti, manipolerà le cifre e si attribuirà meriti di altri, ci farà ridere rivendicando la propria coerenza, risponderà rabbiosa alle domande difficili e ruggirà i propri valori nostalgici. Basterebbe però allargare il campo dell’inquadratura dal suo volto tirato alla sua squadra per vedere con chiarezza che si tratta di una tragica farsa che ricade su tutti noi e in primis su lei stessa.
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Un fallimento politico, ideologico, professionale e privato di dimensioni catastrofiche. Di questo si tratta, povera Giorgia.