IMMOBILI

DI ALFREDO FACCHINI

Alfredo Facchini

 

Niente scioperi. Neanche uno sciopericchio. Neanche un buffetto.

Due settimane dopo l’annuncio della mobilitazione unitaria, Cgil, Cisl e Uil, hanno deciso.
Solo 3 manifestazioni interregionali a maggio per Fisco e Salari: Bologna, Milano, Napoli. Una carezza.
Domani intanto in Francia è previsto l’undicesimo sciopero generale. Lavoratori, disoccupati, studenti, immigrati scendono in piazza, non solo per la riforma delle pensioni, targata Macron, ma per affermare che non si vive solo per lavorare e consumare. Produci, consuma e crepa.
In Francia la mobilitazione di massa, udite, udite, è diretta dai maggiori sindacati dei lavoratori, in primo luogo dalla “CGT”, “FO”, “SUD”. Ad occupare i nodi nevralgici delle città, da Parigi a Marsiglia, passando per Bordeaux ci sono anche i lavoratori con le bandiere rosse dei sindacati.
Non sappiamo ancora se il movimento di lotta francese riuscirà ad imporsi, ma sicuramente stiamo assistendo ad un esempio di radicalità ed intransigenza che nel nostro Paese è sconosciuto da decenni.

Ricordi.

L’Italia a partire dagli Anni ‘60, dagli scontri di Piazza Statuto a Torino nel ’62, fu attraversata da un vento rovente di lotte – la contestazione studentesca e l’autunno caldo –
culminato con la conquista dello “Statuto dei Lavoratori” e la nascita dei consigli di fabbrica, come strumento di contropotere operaio.
Era il 20 maggio 1970 quando veniva emanata la legge n. 300/1970.
La legge si articolava in sei titoli, che andavano dalla tutela della salute dei lavoratori al diritto di costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, di svolgere assemblee e di indire referendum. In particolare, l’articolo 18 prevedeva che un licenziamento fosse annullato e il lavoratore reintegrato nel posto di lavoro (oltre al pagamento di una indennità risarcitoria) nel caso di licenziamento senza giustificato motivo soggettivo o giusta causa, in aziende con più di quindici dipendenti. Articolo disintegrato dal “Jobs Act” del 2005.

Il contesto.

La ristrutturazione nelle fabbriche, seguita alla crisi del 1964-1965, aveva aumentato la meccanizzazione e i ritmi di lavoro.
<<Un nuovo operaio si aggira per le fabbriche: il Robot. Non fa sciopero, non ha angosce, non si fa male, è fortissimo, non è assenteista, non va in ferie, non si mette in mutua, non ha salario, non ha sindacato, non ha partito; ha solo un padrone». Il robot, ovvero il frutto più evoluto dei processi di automazione, era stato infatti inventato con lo scopo di sostituire i lavoratori indisciplinati proprio nei grandi reparti che avevano fatto da detonatore alle lotte del 1969 e quindi per trasformare la fabbrica in «un castello tecnologico invulnerabile a scioperi e rivendicazioni autonome della classe>>. (Un’ambigua utopia)
Le prime battaglie, influenzate dall’eco del “maggio francese” si accesero nella primavera del 1968, nelle fabbriche del Centro Nord. Mirafiori, Pirelli, Sit-Siemens … Obiettivi: la riduzione dei ritmi di produzione, eliminazione delle “gabbie salariali” – che finivano per separare il Nord e il Sud del Paese – ma anche la riduzione delle differenze salariali esistenti tra operai e impiegati.
<<Anche le forme di lotta cominciarono a cambiare: prendendo a prestito il modello delle rivolte studentesche, gli operai ricorsero a forme di agitazione spesso spontaneistiche, con l’organizzazione di assemblee per coordinare la lotta e di scioperi selvaggi, anche contro la pratica sindacale consolidata. Scontri e manifestazioni culminarono nel luglio del 1969 con lo sciopero allo stabilimento della Fiat di Mirafiori organizzato contro il caro-affitti, ma il cui slogan, <<Che cosa vogliamo? Tutto>>, è esemplificativo di un clima di tensione che dall’estate perdurò per tutto l’autunno del 1969, a testimonianza del fatto che le richieste di mutamento non toccavano solo le istanze sul lavoro, ma esprimevano un più generale bisogno di cambiare>>. (Il Mulino)
Ma dal 1977 in poi, con la svolta di Berlinguer e Lama sulla “politica dei sacrifici”, il movimento sindacale in Italia opera una svolta epocale: è l’inizio della fine.
Tant’è che il boss della CGIL, Luciano Lama, nel febbraio ’77, viene cacciato a pedate dall’Università La Sapienza di Roma occupata dagli studenti. La strategia di Lama si materializza al convegno sindacale dell’EUR del gennaio 1978, dove viene messo nero su bianco che il lavoro è un “costo” per le aziende e che il salario non deve più rappresentare una variabile indipendente.
<<L’accumulazione del capitale, opportunamente programmata dallo Stato e indirizzata al fine di accrescere il più possibile l’occupazione. Questa è la nostra linea>>
I diritti dei lavoratori passano in seconda linea. Quello che conta è l’accumulazione del capitale.
<<L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro continuarono in modo costante per tutti gli anni ‘80, passando dall’accordo infame con il gruppo FIAT (accordo che sancì una delle peggiori sconfitte sindacali dal dopoguerra) al decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984, firmato da CISL e UIL (con il sostanziale immobilismo della CGIL) che sancì il taglio del meccanismo di adeguamento automatico del potere d’acquisto dei salari, chiamato “scala mobile”, che sostanzialmente modificava in automatico i salari in funzione degli aumenti dei prezzi. Ai lavoratori venne imposta la rinuncia a quattro scatti di adeguamento salariale rispetto a quanto dovuto per l’inflazione passata>>. (Pressenza)
Il 12 giugno del 1990 si consuma l’ennesimo tradimento. In nome della “concertazione”, viene emanata, con accordo fra tutte le parti, la legge antisciopero 146/90 che disciplinerà gli scioperi in quelli che verranno identificati come “servizi essenziali”.
Demoliti anche gli ultimi argini la Confindustria nel 1991 disdetta “l’accordo sulla scala mobile”. E’ una escalation. Il 31 luglio 1992 i vertici di CGIL, CISL e UIL, il governo e la Confindustria sottoscrivono accordi sulla moderazione salariale e aboliscono la Scala Mobile dei salari. L’anno seguente, in piena “Tangentopoli”, è la volta – sull’altare del “Trattato di Maastricht” – della firma fra imprese e sindacati del “Patto per la politica dei redditi e lo sviluppo”.
La Concertazione fra le parti sociali sostituisce definitivamente la trattativa sindacale. La “compatibilità” della spesa – non più la condizione di lavoro – diventa la stella polare del sindacato.
Con gli osceni accordi del ‘92 e ‘93 si dà anche un duro colpo alla democrazia operaia, abolendo i “Consigli di Fabbrica” e sostituendoli con le “Rappresentanza Sindacali Unitarie” di emanazione sindacale.
Risultato di questo capolavoro al contrario sulla “pellaccia” di chi lavora è che, oggi come oggi, i lavoratori italiani sono tra quelli con i salari più bassi, la precarietà più estesa ed il sistema pensionistico più vessatorio dell’Europa occidentale.
Il sindacato è ormai un’altra cosa. Ha cambiato “ragione sociale” diventando un’agenzia di servizi e di tutele individuali. Ognun per sé.
A quando le corporazioni?