DI GIANCARLO SELMI
In principio fu “l’impossibilità del licenziamento” che non permetteva l’arrivo degli investimenti esteri.
Voleva pensarci Berlusconi a mettere le cose a posto, ma non ci riuscì.
Passò la patata bollente dell’art. 18 a Monti ed ai, sempre presenti, giornalacci fiancheggiatori. L’argomento divenne (misteriosamente, ma non troppo) l’ospite d’onore di tutti i talk shows televisivi. Per un tempo non si parlò d’altro. Gli investimenti esteri, divennero l’unica speranza di sopravvivenza di un Paese martoriato dal berlusconismo.
Ma, ahinoi, neppure il Professore riuscì ad eliminare il presunto motivo della inefficienza del sistema produttivo italico.
Poi giunse lui, il rottamatore, quello che aveva capito tutto e, alla guida di un partito che aveva già perso qualunque contatto con la base, qualunque ipotesi di sinistra, in piena trasformazione da partito della classe operaia, a partito dei prenditori e della “marchesa Mazzanti Viendalmare”, pessima evoluzione della peggiore DC, e vinse la guerra scatenata ai diritti dei lavoratori.
Ma l’art. 18 non bastava.
Bisognava eliminare qualunque tutela, bisognava eliminare o meglio, modulare i contratti, renderli sempre più precari, permettere quella che si cominciò a chiamare, con sempre più frequenza, mobilità.
I talk shows, quindi, si riempirono di discussioni sulla mobilità. Parola che venne sempre più accompagnata da un altro totem, la celeberrima “competitività”.
Gli investimenti esteri non bastavano più (infatti non se ne parlò più e, d’altra parte, non arrivarono mai). La competitività, ovviamente, si recuperava riducendo progressivamente diritti e salari.
E così nacque il Job’s Act.
Un capolavoro neoliberista, sogno di Berlusconi e delle destre, attuato dalla cosiddetta sinistra con la collaborazione dei sindacati.
Il Paese, nonostante ciò, continuò ad affondare. I consumi crollarono progressivamente, proporzionalmente al salario dei lavoratori, fino a toccare il fondo. In Europa, ma non solo. La tanto auspicata “competitività” rimase una chimera idealistica.
Il gap fra le imprese italiane e quelle tedesche si è allargato, nonostante che, in Germania, i salari siano aumentati e che oggi siano mediamente il doppio di quelli italiani. Stranamente, in Germania, il salario minimo fissato per legge, esiste. E continuano ad esistere tutele e welfare. Anzi si sono rafforzate con il tempo, dimostrando che la via italiana al neoliberismo, invece di sollevare il paese lo abbia massacrato, riempiendolo di schiavi e facendo diventare insostenibili, in un paese del primo mondo, con economia matura, le differenze sociali.
Oggi Meloni incarna e continua, quella politica che ha massacrato il paese, riproponendo le ricette che ne hanno limitato la capacità di consumo e di sviluppo.
Le barricate opposte al salario unico, le scelte sul RdC, volte ad aumentare il ricatto del lavoro e la neoschiavitù, supponendo, come lei stessa ha dichiarato, che “per risollevare il Paese bisogna aumentare il profitto degli imprenditori” a danno dei lavoratori, ci ripresentano pari pari gli equivoci del passato.
E, con una classe dirigente di ancora più basso livello, ci inducono ad elaborare il facile pronostico di un’Italia sempre più in basso.