PD, ULTIMA CHIAMATA

DI MIMMO MIRARCHI

REDAZIONE

 

 

“Con questi dirigenti non vinceremo mai”.

Era il febbraio 2002 quando dal palco di piazza Navona Nanni Moretti lanciò il suo j’accuse a un Pd che non lasciava sperare nulla di buono. Il suo grido però non smosse nessuno e il Pd con tutto il suo gruppo dirigente continuò la sua corsa incurante del monito.

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A distanza di circa venti anni Nicola Zingaretti lascia la segreteria del partito con queste parole: “Mi vergogno del mio partito, si parla solo di poltrone”. Anche in questo caso inascoltato, e come ferrei burocrati “questi dirigenti” si sono limitati a sostituire il segretario e proseguito per la stessa strada. Ed ora, dopo averne cambiati una decina in quindici anni il Pd, a ridosso di una cocente sconfitta elettorale, si avvia ad “eleggere” un nuovo segretario, magari una donna.

Farà un congresso, forse cambieranno il nome e il simbolo, seguirà la solita distribuzione correntizia degli incarichi, diranno ancora una volta che sono pronti a coinvolgere circoli territoriali e realtà sociali, a dare rappresentanza a chi non ce l’ha, ad impegnarsi a costruire un campo largo o progressista o altra “cosa”, per poi concludere, crogiolandosi, di essere la maggiore forza di opposizione in Parlamento.

Non si tratta di fare la Cassandra di turno, ma lo spettacolo da fiera delle vanità di questi giorni e l’assenza generale di autocritica lascia presupporre che il rinnovamento si esaurirà in un incipriamento di ritorno utile solo a garantire il mantenimento della poltrona a una serie di maggiorenti che già da tempo non hanno nulla di interessante da dire.

Le dimissioni di Letta erano inevitabili, ma farlo diventare il capro espiatorio di un fallimento che viene da lontano e che ha coinvolto tanti personaggi della prima ora è decisamente sbagliato.

Prendersela solo con lui sarebbe il salvataggio di tutti coloro che hanno le stesse responsabilità dell’insipienza programmatica di sempre, della costante scialba azione politica e del fallimento dell’ultima campagna elettorale. Franceschini, Serracchiani, Bonaccini, Orfini, De Micheli, Orlando, Guerini, De Luca, Emiliano, Marcucci, solo per citare alcuni nomi, dov’erano mentre il partito faceva scelte discutibili e, oggi, quando Letta decideva le alleanze elettorali? Quanta responsabilità sentono mentre il partito si andava trasformando in un’oligarchia autoreferenziale fatta di cordate personali e satrapie territoriali? Ed è proprio a loro, in quanto gruppo dirigente, che dovrebbero fischiare le orecchie. E ancor di più a quelli che si erano aggregati a Renzi e averlo sostenuto nella sua arrogante e disgregante gestione. Perché se è vero che già dalla nascita il Pd non è mai riuscito ad amalgamare completamente le due anime fondatrici, e quindi mai ad assumere un’identità definita, l’avvento alla segreteria di Renzi ha affossato definitivamente ogni progetto in chiave liberal-socialista. E grazie a lui si è rafforzata in molti una concezione e una pratica della politica intesa come mera ambizione personale e piglio conservativo del posizionamento raggiunto. Con lui e dopo di lui il Pd si è barcamenato tra progressismo e moderatismo aggiungendovi poi anche una buona dose di populismo, contraddittorie visioni che hanno chiuso le porte all’elaborazione di una precisa idea di società da proporre al proprio elettorato di riferimento.

Non può meravigliare quindi che oggi il Pd sia diventato una forza politica non identificabile, arresa alle ingiustizie, quindi incapace di trasmettere speranza per il futuro. Mai l’elettore tradizionale avrebbe immaginato che il suo partito potesse arrivare a tanta indifferenza verso i temi identitari propri della storia politica da cui proviene. E chi se non questo gruppo dirigente sempre più sradicato da ogni rappresentatività territoriale ne porta le colpe? Perciò ha il dovere, direi la decenza, di farsi da parte. In silenzio e in punta di piedi.

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Naturalmente, non basta cambiare gli orchestrali se la musica dovesse essere la stessa. Né si può pensare che sia sufficiente cambiare nome e simbolo per dare l’avvio a una nuova stagione. Dovrebbe essere chiaro a tutti che un’operazione gattopardesca sarebbe il definitivo suicidio. Il Pd può anche sopravvivere a sé stesso, ma deve imboccare una strada che dia ai suoi potenziali elettori prospettive in chiave socialdemocratica, ormai unica filosofia da perseguire. Perché se il centrodestra è diventato destra è necessario che il centrosinistra assuma una prevalente cultura di sinistra.

Nel prossimo congresso bisogna ripartire da qui, dal recupero delle radici popolari e socialiste, perché se va smarrita la coscienza del dove veniamo non è chiaro nemmeno dove si vuole andare. Inutile divagare, se il Pd è nato per rappresentare le istanze della parte più esposta della società, lottare contro le disuguaglianze, difendere il lavoro, propugnare la pace tra i popoli, è da questi propositi che bisogna ripartire. Ma con un gruppo dirigente fatto di facce e teste nuove in grado di costruire credibilità su scelte coerenti e di sostenerle con determinazione.

Intanto da qui al congresso, più che impegnarsi nella scalata alla segreteria sarebbe più utile e dignitoso elaborare una strategia di opposizione efficace, che sia innanzitutto propositiva.

Si metta al centro del dibattito lo ius scholae, una chiara definizione sulle norme del fine vita, l’affermazione dei diritti di chi ha orientamenti sessuali diversi, la difesa e la corretta applicazione della legge 194, la netta contrarietà a stravolgimenti antidemocratici della Costituzione, l’impegno per una legge elettorale rispettosa degli elettori.

A Calenda, Conte, Fratoianni e Renzi si chieda se sono interessati a cominciare a lavorare insieme su queste tematiche identitarie. Va da sé che non vanno perse di vista tutte le questioni economiche, sanitarie e del lavoro, ma intanto bisogna essere chiari su quale idea di società si ha in testa. Solo così è possibile fronteggiare questa destra che ha tutte le caratteristiche dell’illiberalità, altrimenti è il solito stillicidio di sterili compromessi.

In alternativa si parli ai loro elettori, molti dei quali, stando allo studio sui flussi elettorali, oggi li hanno votati solo perché scontenti del Pd. Senza contare che nella platea dell’astensionismo c’è una buona parte di cittadini che darebbero volentieri il loro consenso a un Pd determinato a perseguire una chiara politica progressista. Perciò, dal congresso è auspicabile che venga fuori una risposta forte al bisogno di giustizia sociale e che sia in grado di suscitare una speranza di riscatto. C’è fuori un numero notevole di giovani pronti a lottare per la salvaguardia dell’ambiente e l’affermazione dei diritti. Essi sono in attesa di un riferimento politico in cui possano riconoscersi, di una rappresentanza da sostenere e anche di un linguaggio vicino al loro sentire.

Puoi anche aver ragione, ma se la gente non ti capisce hai torto” diceva un mio vecchio compagno. Anche di questo il Pd dovrebbe tenere in conto.

 

Di Mimmo Mirarchi da:

27 Novembre 2022