MAI PIU’ – DI NOME FACEVA LICIO GELLI

DI RINALDO BATTAGLIA

RINALDO BATTAGLIA

 

Lunedì 6 settembre 1943 (e del resto gli sportelli bancari il sabato e la domenica erano anche allora chiusi) il Re, poi Badoglio e via discorrendo gli altri, Roatta in primis, passarono in Banca d’Italia a Roma a prelevare un po’ di cash per la fuga verso Brindisi e per le spese correnti. Si racconta che il prelievo sia stato consistente: 13 milioni di lire il Re, 10 milioni Badoglio, 8/9 Mario Roatta.

Si rammenta sempre che a quel tempo di fame e miseria, dettate da oltre 3 anni di guerra, il salario di un operaio si attestava mensilmente sui 250/300 lire e uno stipendio di un alto funzionario statale sulle 1.000 lire. Ognuno può quindi  farsi dei ragionamenti in merito.

Un mese dopo gli ebrei a Roma verranno venduti – dai fascisti ai nazisti – se uomini per 3.000 lire cadauno, se donna sui 1500/2000. I bambini costavano invece meno da 1.000 a 1.500 lire.(…)

Quel giorno chi capiva come stavano andando le cose, come il giovane re Pietro (figlio di Alessandro I°, ucciso a Marsiglia il 9 ottobre 1934 probabilmente da uomini di Roatta e Mussolini), i suoi ministri e molti suoi alti generali, tagliarono la corda verso altri lidi e portandosi ovviamente appresso le giuste scorte di sopravvivenza. E assieme a queste – chissà come mai – anche “solo” 57 autocarri, pieni carichi di “sole” 1.300 cassette di legno, con tanto di etichetta “Banque Nationale Royame de Jugoslavie – Caisse Centrale”. Al fine di rendere poi le cose facili, ogni cassetta, contenente 55 chili d’oro fino in lingotti, venne numerata in rosso. All’incirca per un peso totale di 60 tonnellate.

Ma evidentemente non bastava: su altri 8 autocarri viaggiava un altro tesoro, per lo più fondi di proprietà dei fuggitivi, per un altro totale di 64.494.177 dinari jugoslavi, 223 mila franchi francesi, 175 mila corone, 76.675 mila dollari. Cents più, cents meno. Inoltre, vi era segnato un terzo tesoro, quello “personale” del re che non poteva di certo esser mischiato e confuso con quello dei subalterni. Si parla di 500 milioni di dinari in biglietti da mille e di un imprecisato numero di casse piene di gioielli e monete d’oro, il tutto contenuto in poveri sacchi di tela ruvida.(…)

Il 15 aprile l’ufficiale di stato maggiore che comandava il prezioso convoglio, ricevette l’ordine dal sovrano, in attesa dell’imbarco, di nascondere tutto il tesoro in una caverna naturale a due chilometri dalla città di Niksic, sulla strada per Podgorica, vicino alla base navale di Cattaro. Era chiamata da secoli come la “caverna dei sette ladri”, da quando – si diceva – due/tre secoli prima, sette banditi avessero l’abitudine lì di depositare il frutto delle rapine e scorrerie. Ma non fidandosi del tutto dei suoi, il re ordinò che la sua parte, il tesoro della corona, fosse invece nascosto nelle grotte del monastero del patriarca Gavrilov, sul monte Ostrog. Tutto tranne 15 milioni di dinari per le spese personali e per pagarsi meglio la fuga. Così almeno si racconta.

Ma nel frattempo, il 17 aprile l’Italia con le divisioni Centauro, Messina e Marche, occupò l’intero Montenegro, e pertanto il piano del re (e del suo governo) divenne non più possibile, almeno nell’immediato. Anche perché i servizi segreti di Mussolini vennero a conoscere in fretta l’esistenza di quel viaggio e, soprattutto, del suo interessante motivo. Il nostro generale Roatta, non perse un secondo e ordinò di recuperate l’oro jugoslavo, prima che sparisse o che magari i nazisti – nel frattempo impossessatisi di Belgrado – reclamassero diritti o royalties.

A gestire l’operazione venne incaricato un suo uomo di fiducia, il generale Riccardo Pentimalli, comandante della divisione Marche, che in breve – minacciando e pagando a destra e a manca – arrivò al tesoro, facendo immediatamente piantonare la “caverna dei sette ladri”.

Fu da quel momento che entrò in scena un giovane fascista che proprio in quei giorni festeggiava le sue 22 primavere. Era già in carriera e si trovava in Jugoslavia al seguito di un ex- federale di Pistoia, Luigi Alzona, che lo aveva già trasformato in un valido agente del Servizio Informazione Militari (Sim). Di nome faceva Licio Gelli.

E fu il giovane Gelli a studiare un piano perfetto per confondere le idee a chi volesse – caso mai – non averle confuse. Gelli propose l’idea di un falso “treno ospedale” diretto a Trieste che trasportasse in Italia, oltre a falsi soldati feriti, soprattutto il tesoro jugoslavo. E così avvenne con cinque vagoni che, arrivati a Trieste, vennero parcheggiati in un binario morto, dopo la stazione. E’ lì, alla stazione di Trieste il tesoro venne consegnato ad altri agenti del Sim. E qui comincia un altro film. Il bottino, ossia il tesoro, venne diviso in più parti.(…)

Nel frattempo i principali protagonisti della vicenda dell’oro jugoslavo – Roatta, Pentimalli, Azzolini e Gelli – cambiarono casacca e da “veri fascisti” passarono nella squadra della nuova Italia, nata dopo il 25 aprile 1945.

Nessuno venne di fatto processato, nessuno venne di fatto condannato. Anzi qualcuno prima di qualche spiacevole sentenza venne lasciato fuggire all’estero. Se ci fossero state poi delle condanne effettive le mille amnistie successive avrebbero pulito il tutto, molto meglio della più efficace candeggina. Nel caso specifico di Licio Gelli, un altro affermato storico, Gianfranco Piazzesi, in “La caverna dei sette ladri” (Baldini & Castoldi, 1996), affermò più volte che dopo l’incontro con Togliatti, Gelli poté tranquillamente rientrare nell’isola della Maddalena sotto addirittura la “tutela” degli americani, e lì presto lo raggiunse la moglie e il resto della famiglia. Tutti al sicuro e ben protetti da qualche possibile vendetta partigiane o da qualche più semplice sistemazione “privata” di conti prima lasciati in sospeso e nati quando Gelli indossava la camicia nera.

Come non condividere: Gelli finì sì nelle carceri di Cagliari, di Napoli, a Regina Coeli, (dove peraltro condivise la cella con Junio Valerio Borghese, il principe nero, ex comandante della X Mas) a Pistoia e poi a Firenze con l’accusa di collaborazionismo, ma fu di poco conto e per poco tempo. Già nel giugno 1946 proprio Togliatti, quale ministro della giustizia, promulgò la “grande amnistia”, che puliva tutto e dalla quale erano esclusi “solo i colpevoli di sevizie particolarmente efferate”.

Gelli aveva collaborato con i nazisti, ma non risultava personalmente coinvolto in azioni contro i partigiani. Poté quindi beneficiare della legge.

E il tesoro jugoslavo? Oltre venti tonnellate d’oro mancarono all’appello e restarono in mani misteriose.(…)

Nel 1939 tramite il cacciatorpediniere Beograd vennero trasferiti a Londra 19,4 tonnellate di oro e depositati presso la London Bank. Nel 1940 altri due trasferimenti (il primo tramite la Banca dei regolamenti internazionali BRI in Svizzera e il secondo tramite la Grecia) per 41,666 tonnellate di oro, che vennero depositati a New York presso la Federal Reserve.

In Jugoslavia rimasero così 11,539 tonnellate di oro, di cui 1,1786 a Saraievo (che verranno “presi” dagli ustasha di Ante Pavelic dopo la resa del 17 aprile ‘41) e 9,82114 in 204 casse (ciascuna con circa 48 kgr) in un deposito sotterraneo a Uzice. Nel Marzo 1941 con l’invasione le 204 casse vennero spostate a Nicsic in Montenegro per essere aerotrasportate col Re e il governo in Egitto. Solo 14 casse con 674 kg di oro poterono essere caricate sui bombardieri Dornier DO17 già stracarichi e quindi 190 casse rimasero a Nicsic e si cercò di nasconderle in varie località.

Di queste ben 176 casse con 8.33 tonnellate di oro vennero di certo recuperate dagli italiani e trasferite a Roma e depositate alla Banca d’Italia, 7 vennero recuperate dai tedeschi, 1 è recuperata dai Cetnici e e 5 dai Titini, 1 risulterebbe scomparsa (forse, non è neppure certo perché i tedeschi o i Titini potrebbero averla recuperata in un secondo momento).(…)

E oltre ai grandi operatori “istituzionali” di certo, anche nelle mani dei “piccoli uomini” – che permisero quei giochi – restarono incollate chissà quanta “polvere di oro”. Resta un fatto innegabile che  – come diceva Hannah Arendt – “la guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri” ossia “ridistribuisce le ricchezze di altri”.

Resta un fatto innegabile: la strage di Bologna del 2 agosto 1980 ha avuto vari battesimi e molti padri. Ed è solo vergognoso pensarlo. Non c’è stata solo la “caverna dei sette ladri”, ove nascondere soldi e dignità, non ci sono  stati solo ‘sette ladri’ a rubarci 85 vite ed affetti infiniti. Di certo tra questi comunque – si dice – un ex-uomo del Duce e chissà  di quanti altri uomini dopo. Di nome faceva Licio Gelli.

Resta un fatto innegabile: «Con la P2 avevamo l’Italia in mano. Con noi c’era l’Esercito, la Guardia di Finanza, la Polizia, tutte nettamente comandate da appartenenti alla Loggia.» Sono parole pesanti dette da un uomo di potere, più o meno nascosto, più o meno protetto per almeno 75 anni, nato nel regno buio di Mussolini e nel buio continuò  a vivere – anche dopo Mussolini – come se nulla fosse cambiato.

Di nome faceva Licio Gelli.

 

6 settembre 2022 –  Rinaldo Battaglia

liberamente tratto da “Il dolore degli altri” – ed. Ventus/AliRibelli 2022