MICHAIL SERGEEVICH GORBACHEV, PIU’ AMATO NEL MONDO CHE IN PATRIA

DA REDAZIONE

 

 

Tante rievocazioni nel mondo per Michail Sergeevic Gorbachev. Per il ruolo che ha avuto nella storia e per le sue caratteristiche umane. Qualche esaltazione esagerata e qualche offesa gratuita: Putin che non va al funerale, o la meschinità di chi in Italia brinda alla sua morte.
Nel suo Paese Mikhail Sergeevich era guardato con diffidenza. Stava liberando i russi ma a loro non sfuggiva che “Velikaya Rossiya”, il Grande Paese, perdeva il suo potere nel mondo, annota Ugo Tramballi.
Gorbaciov constatava solo l’insostenibilità economica di quella potenza per un Paese che non produceva più nulla. Ma il senso di grandeur per i russi era più potente della realtà e della libertà che in cambio veniva loro offerta. Riflessione utile sull’attualità.
Ma lasciamo spazio alla storia con Giovanni Punzo che sottolinea tre passaggi chiave nel percorso politico di Michail Sergeevich Gorbachev

1986: una crisi ambigua

«Dal momento in cui venni informato telefonicamente, alle 5 del mattino di quel fatidico 26 aprile 1986 che un incendio era divampato nel reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, la mia vita non è stata più la stessa. Sebbene in quel momento non si conoscesse la reale entità del disastro, fu subito evidente che stava accadendo qualcosa di orribile»: con queste parole Gorbachev ricorda l’episodio che indubbiamente agì come una miccia a lenta combustione sulla struttura del potere sovietico. Chernobyl era del resto la rappresentazione stessa della contraddittoria situazione: una grande potenza reggeva il confronto militare internazionale al massimo livello, ma non quello industriale ed economico. Anzi in questi ambiti si notavano evidenti e pericolose spaccature: proprio in questo caso infatti da un parte un grande impianto forniva energia ad un’ampia parte del paese, creando un’illusione di modernità, ma dall’altra si trattava di una struttura relativamente obsoleta, nata con gravi difetti di funzionamento e gestita con incompetenza e superficialità.
Con il senno di poi si potrebbe dire un disastro annunciato. Senza ripercorrere episodio dopo episodio la vicenda, fu indubbiamente la prima volta in cui un segretario generale del PCUS – che al pari dei suoi processori disponeva di poteri illimitati – non seguì completamente quanto gli si suggeriva da parte dell’apparato e fece una propria scelta. Poco gradita a molti: il suo monito a ripensare il ruolo dell’energia nucleare fu accolto con freddezza dalla comunità internazionale e la sua gestione della crisi sul piano interno destò allarme nell’establishment. Dietro un apparente successo, sia pure dopo un tormentato e costosissimo processo di neutralizzazione delle conseguenze della catastrofe, si rafforzarono anche le resistenze al rinnovamento.

1989: l’accelerazione

Tra la primavera e l’estate del 1988 si compì un altro gesto di disimpegno e distensione attraverso il ritiro delle forze sovietiche dall’Afghanistan, un gesto che sottintendeva però l’ammissione dell’esito poco felice di un intervento militare iniziato quasi dieci anni prima, e l’apertura di un altro conflitto peggiore. All’inizio del 1989, quando gli ultimi sovietici lasciarono l’Afghanistan, sembrava ancora che le evidenti trasformazioni in corso in Unione Sovietica e in Europa orientale avrebbero avuto un decorso graduale. La doppia strategia impostata da Gorbachev che si basava sulle riforme (perestroika) e sulla trasparenza (glasnost) fino a quel momento era stata lontana soprattutto dalla minaccia dell’uso della forza in qualsiasi situazione.
E anche in Polonia, dove la situazione sembrava più tesa, governo e Solidarnosc avevano aperto un tavolo di consultazioni per concordare le prime ‘libere elezioni’ che nel giugno di quell’anno produssero un risultato sconvolgente, ossia la maggioranza assoluta dei seggi all’opposizione. Dalla Germania est, in settembre, iniziarono fughe di massa attraverso l’Ungheria raggiungibile con un visto turistico e nel novembre di quell’anno cadde “il muro”. Né è possibile dimenticare i fermenti delle repubbliche baltiche, cominciati proprio dopo l’ascesa di Gorbachev, e le tensioni nel Caucaso: tutto insomma vacillava scosso in profondità, a parte la rinuncia da parte del segretario generale del PCUS ad usare la forza in qualsiasi forma.
Probabilmente proprio questa rinuncia – indubbiamente frutto di tormentate riflessioni personali e politiche, ma soprattutto scelta quanto mai inusuale nella storia russa e della sua leadership – fu l’elemento che pesa ancora oggi sul giudizio popolare di scarsa simpatia nei confronti di Michail Sergeevic come il politico che provocò la dissoluzione dell’impero, o – se si vuole – della mitica “età dell’oro” sovietica.

1991: la fine

Il 1991 cominciò invece con la dura repressione dei moti indipendentistici in Lituania e Lettonia, che si rivelò tuttavia un successo quanto mai effimero e che anzi, nei rapporti tra russi e baltici, produsse risentimenti oggi ancora vivi. Nel giugno di quello stesso anno fu eletto presidente della repubblica russa Boris Nikolaevic El’cin, figura controversa con un movimentato passato nel PCUS, ma che ottenne una solida maggioranza. Il maggiore problema, secondo solo alle volontà di allontanamento dall’URSS di numerose repubbliche, restava però quello economico, perché la Russia stava scoprendo di essere una sorta di paese in via di sviluppo, pur immensamente ricca di risorse naturali.
Si continuava a confondere, o probabilmente si voleva continuare a farlo, la democrazia di stampo liberale – breve ed effimera stagione ai tempi di Kerenskj nel 1917 – con il liberismo economico che di li a poco si sarebbe scatenato proprio durante l’era El’cin. In questa situazione non fu difficile ad un gruppo di nostalgici irriducibili, ben insediati nell’apparato statale, tentare un colpo di stato che finì in un fallimento. Gorbacev, che si trovava in Crimea, fu tenuto in ostaggio dai golpisti per tre giorni e alla fine liberato per l’intervento di reparti speciali. A conclusione dei torbidi, la vittima, cioè Gorbacev, fu trasformata in complice da El’cin che aveva intuito il momento in cui tentare a sua volta un contro-golpe. In quelle agitate ore Corvo bianco riuscì perfino a salire su un carro armato per arringare la folla dei dimostranti.
Al suo rientro in Russia nel 1917 anche Lenin, alla stazione di Finlandia, aveva arringato le guardie rosse e la folla accorsa a salutarlo dal tetto di un’autoblindo, ma quella volta la Storia aveva preso un’altra piega.

 

Articolo di Giovanni Punzo, dalla Redazione di:

4 Settembre 2022

 

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GIOVANNI PUNZO

Giovanni Punzo di mestiere dovrebbe aggiustare ciò che scrivono gli altri -fa l’editor- ma ha preso il vizio. Scrive di storia militare, altro ‘contagio’ per aver fatto l’ufficiale degli alpini. Da lui le guerre ‘dei nonni’ all’origine di quelle di oggi.