РУСКИ ЦАР, IL RUSKÝ ZAR 2003 IN SERBIA E PUTIN DA BERLUSCONI

DI ENNIO REMONDINO

 

 

Un articolo ritrovato, scritto nel 2003 per la rivista Limes dell’amico Lucio Caracciolo. Corrispondente Rai dai Balcani, allora riuscivo a fare anche quello. In Italia era governo Berlusconi. Occasione, la visita di Vladimir Putin nella villa sarda di Berlusconi, tempi di affari petroliferi e di ‘lettoni’.
Dovevo raccontare dei molteplici e antichi legami tra Serbia e Russia, viste le posizioni antitetiche tra Roma e Mosca sul pasticcio Kosovo. Se scriviamo Ucraina al posto di Kosovo con lo sconto dei 20 anni trascorsi, possiamo trovare qualche spunto di quasi attualità.

Celebrazione ortodossa della Zar Nicola II

Руски Цар

Se lo scrivi in caratteri latini diventa Ruski Car, lo leggi Ruschi Zar e lo traduci nello Zar Russo.

Ruski Zar è il caffè della Belgrado di un’altra epoca che resiste, all’angolo tra la pedonale più avvenente al mondo, Knez Mihailova, e Trg Republika, la piazza di tutti i risorgimenti politici serbi condannati inesorabilmente a fallire. Ruski Zar occupa l’intero piano terra di un maestoso palazzo asburgico di fine ‘800, con un interno di tavoli, abatjour e poltroncine che di quell’epoca vogliono riprodurre stile e toni. Camerieri in perfetta divisa rossa da cosacchi, armati di palmare per la contabilità elettronica, e alle pareti la sfilata di tutti gli Zar di tutte le Russie. Quelli finiti bene e quelli finiti male, Zarine imbalsamate in abiti di corte, principini infanti in posa da bella statuina e mai diventati principi, ritratti ad olio di un certo pregio e riproduzioni fotografiche seppiate di una San Pietroburgo scomparsa con gli ultimi Romanoff. A completare la galleria, sulla parete che domina il piano rialzato dove c’è il ristorante, la foto a colori dello Руски Цар oggi imperante, Vladimir Putin.

Panslavismo con moderazione

Comunisti atipici questi jugoslavi, quando ancora lo erano. Molto meno vicini a Mosca dell’Italia del comunismo PCI, quando Stalin era ancora imperante o appena sepolto. Lo slavismo partigiano del titoismo è stato sentimento identitario talmente forte da supplire per decenni all’assenza di una definizione nazionale precisa e condivisa. Con la caduta del muro, del comunismo e della posizione di rendita strategica jugoslava, da queste parti è arrivata la rincorsa all’identità, salvo fare un po’ di confusione tra nazione ed etnia. Esattamente ciò che sta avvenendo, per la legge del contrappasso, oggi in Kosovo.  Potremmo anche dire che, con 200 anni di ritardo sull’Europa della rivoluzione francese, gli slavi del sud e coinquilini balcanici più o meno amati, si sono trovati a passare dalla forma degli imperi (ottomano, asburgico o socialista che sia stato), alla interpretazione post-socialista dello Stato-Nazione. Il problema della Serbia è di avere un memoria storica recente sempre e solo piena di pre o post che le appaiono sempre e comunque contro. Più che un ritrovato amore per la madre-matrigna Russia, nella Serbia di oggi è trasparente un bel giramento di scatole, collettivo, nei confronti dell’occidente e soprattutto dell’Unione europea.

Москва хотел, hotel Moskva

Se cerchi la Russia a Belgrado, non puoi evitarti il vicino Москва хотел, l’ormai centenario hotel Moskva, inaugurato nel 1906 e da allora mai più ristrutturato a fondo. Tre passi dalla Trg Republika sino a Terazie, sul finire del passeggio da turbamento. L’hotel Moskva è un luogo per amatori. Bar e pasticceria sempre colmi di belgradesi impegnati in lunghissime conversazioni, sale enormi, col contrasto di una reception da questura, sul fronte posteriore, con un nugolo di addetti dalla solerzia e cortesia del piantone di turno. Quando superi lo sbarramento, ti accolgono piani a doppia alzata, cinque sei metri al soffitto e camere a due piani, entrata-salottino con mobili d’epoca solo per l’età, ed una scala in legno che ti scricchiola sino alla zona letto e al bagno. L’idraulica è da modernità real-socialista, la vista stupenda, anche di notte, visto che le tende sulle enormi finestre sono inamovibili dai tempi di Tito. Al Moskva, anche se non pernotti ma sei un intenditore, devi andare al ristorante. Sino a ieri era al primo piano, con pianista d’epoca incorporato e cameriere con ai piedi le scarpe di pezza bianche allacciate sino alla caviglia, di rigoroso modello sovietico. Oggi trovi le “hostess”, interpretazione estetica della nuova democrazia, tutte selezionate tra il meglio del famoso passeggio e tutte con movenze da indossatrici. Recentemente hanno spostato il ristorante al più gradevole piano terra, sull’angolo, ma sua specialità da intenditori resta sempre la stessa, la tartare che ti viene confezionata con i suoi diversi arricchimenti di fronte gli occhi, da un capocameriere molto compreso nella sua opera d’arte gastronomica.

Europa matrigna e indigesta

L’Europa dell’Unione in Serbia è un prodotto difficile da vendere. Vale qualche cedimento personale per un visto Schengen, ormai indispensabile per uscire da una casa nazionale sempre più piccola, ma in pochi credono nella promessa di matrimonio. Soprattutto nella sua felicità. L’Europa che si confonde nella Nato e l’Italia del tradimento, è la sintesi della polemica da ristorante. Persino la cucina italiana è stata a rischio nei giorni dell’indipendenza kosovara. La sera della grande protesta popolare serba di piazza, ristoranti prudentemente chiusi in tutto il centro della città, anche se a finire sfasciati sono stati soltanto i troppi Mc Donald’s cresciuti ovunque. Anche l’ambasciata italiana era sbarrata, mentre quella Statunitense ha leggermente preso fuoco. La battuta scontata degli italiani filo-serbi ad oltranza resta nel campo degli affari: “L’Europa s’è presa in carico il Kosovo albanese e la Russia si sta prendendo la Serbia”. Detto così, l’affare appare pessimo. Non è esattamente così, ma l’immagine rende l’idea del rischio reale. L’onere Kosovo assieme alla forzatura di molte norme internazionali. In cambio di cosa? Da questa parte del fiume Ibar (quello che divide in due Kosovska Mitrovica e che separa il Kosovo albanese da quel pezzetto che resta serbo), è la stessa Europa a non risultare un grande affare. Capitalismo post comunista, quello che vedi in Serbia, tra mille difficoltà e sbandamenti. Capitalismo che accumula molto e distribuisce molto poco, a guardarsi attorno.

Le Ferrari nella Belgrado di Milosevic

Nella vecchia Belgrado pre bombe Nato, di Ferrari in circolazione ne vedevi soltanto due: quella rossa di Marko, il figlioletto maschio di Slobodan Milosevic, e quella gialla di un amico italiano che, per tutela della sua “privacy”, chiameremo “Marietto il milionario”. Ora ci sono più Ferrari, Porsche e Suv per le strade di Novi Beograd che in Brianza. L’imprenditoria interna che si regge sul rapporto clientelare col potere, l’Europa non la desidera. L’economia internazionale presente in Serbia che sa monetizzare soprattutto il minor costo del lavoro, neppure. La Serbia ancora socialista del posto di lavoro assicurato e poco faticoso e impegnativo preferisce tenersi la Zastava piuttosto che diventare Fiat o Wolkswagen. La Russia, alla fin fine, per un bel pezzo di classe politica ed economica serba e per una vasta parte popolare, appare oggi come il miglior affare possibile. Egoismo, neo-isolazionismo, eccesso di incazzatura. Tutte queste cose assieme, probabilmente, ma la Serbia è più che mai un paese oggi spaccato a metà. L’Europa come scommessa da non perdere, è probabilmente l’opzione prevalente, ma questa Europa così come si presenta piace davvero a pochi.

Sveti Mako

La Serbia e la Russia le vedi assieme anche vicino alla cattedrale di Sveti Marko, San Marco, all’inizio di quello che era il Viale Revoluzjie dei tempi di Tito. La chiesetta russa, che distingui dalla croce con una seconda piccola barra trasversale in basso, è lì da un sacco d’anni. Le scritte esterne in cirillico russo e la scarsa propensione ai riti religiosi dei miei amici e collaboratori belgradesi me ne hanno sempre impedito una più precisa datazione e conoscenza storica. La piccola chiesa russa è meta di pellegrinaggio di passaggio per qualsiasi “televisivo” in Serbia, visto che è la scorciatoia che porta alla RTS, la Radiotelevisione serba dove sei costretto ad andare per inviare via satellite i tuoi servizi in Italia. A trasmettere o a prendere bombe, in alcuni casi. Di fronte alla mistica chiesetta si apre infatti Ulica Aberdareva, la via presa di mira dai missili Nato la notte del 23 aprile 1999. Sul corpo centrale dell’edificio televisivo, ancora lo squarcio dell’ala colpita. Mancano soltanto le macerie che hanno seppellito 16 poveri cristi, condannati a morte perché “strumenti della propaganda di Milosevic”.

La diverse facce della Luna

L’eterno problema dei diversi modi di lettura possibili di un fatto, in genere legati alla posizione da cui guardi le due facce della luna. Iniziamo con le persone, con la certezza di avere almeno individuato il soggetto. Lo spagnolo Xavier Solana, per esempio, il rappresentante della politica estera dell’Unione europea. Solana, letto da Roma, è l’affabile mediatore delle divisioni europee capace di venderle come meditate e autorevoli posizioni unitarie. Lo stesso Solana, letto da Belgrado, è l’ex segretario generale della Nato che il 24 marzo 1999 diede l’ordine d’attacco ai cacciabombardieri. In diplomazia tale dualità potrebbe essere definita una “imbarazzante coincidenza”. Passi Solana e andiamo oltre, per capire se più che di una sfortunata coincidenza si tratti invece di vizio o arroganza. Il super mediatore Onu Marti Ahtisaari sulla questione Kosovo. L’ex premier finlandese è lo stesso personaggio che garantì, con la sua firma autorevole, il cessate il fuoco di Kumanovo. Il Kosovo come provincia della Serbia sovrana, garantì Ahtisaari allora, salvo tornare 8 anni dopo a dire, “scusate, c’eravamo sbagliati”.

Arruolato anche il vocabolario

Se passi dalle persone alle parole, la confusione diventa addirittura inestricabile. Quella del Kosovo di Pristina si deve chiamare Indipendenza o Secessione? Sempre la solita storia dei punti di vista. In Kosovo, negli ultimi 10 anni ho visto stravolgersi anche il vocabolario. Sino a metà del 1998, prestando accorta attenzione alle definizioni autorevoli delle parti internazionali, soprattutto all’ambasciatore statunitense per i Balcani, Christofer Hill, ero autorizzato a definire i gruppi armati albanesi dell’UCK come terroristi. Un mese dopo scoprii che erano diventati “ribelli”, “guerriglieri”, “partigiani” e così via trasformando. Una volta era la regola che chi vince ha ragione. Oggi, in tempi di comunicazione di massa e di “opinione pubblica” elettrice, la ragione è meglio costruirla prima perché siano sempre i “buoni” a vincere. Anni dopo ho avuto l’opportunità di incontrare l’allora premier kosovaro Ramush Haradinaj. Visita di stato dell’allora ministro degli esteri Fini. Poi l’ho rivisto (Haradinai) alla sbarra al tribunale dell’Aja, con l’accusa che chiedeva per lui la condanna a 25 anni di carcere per crimini di guerra. Un’altra svista internazionale.

Lev Nikolaevič Tolstoj

L’altro legame che io conosco tra Serbia e Russia, è corpo profondo della letteratura mondiale. Лев Николаевич Толстой, che noi abbiamo letto come Lev Nikolaevič Tolstoj, era uno dei molti intellettuali e patrioti russi della seconda metà dell’ottocento simpatizzante della causa Serba in lotta contro l’occupante ottomano. Il tormentato principe russo Tolstoj scrive uno dei suoi molti capolavori, Anna Karenina, tra il 1873 ed il 1877. Erano gli anni delle guerre russo turche che si combatterono nei Balcani. Nel romanzo Anna Karenina, Tolstoj, affida al conte Vronskj il ruolo di ultimo amore della povera Karenina suicida. Dopo il dramma Vronskj parte per la guerra di liberazione serba. Il personaggio del conte Vronskj fu raccontato da Lev Tolstoj partendo dalla figura leggendaria del suo compatriota colonnello Nicolai Nicolaievich Rayevski.

La spia, Comitato Odessa e i garibaldini

Arruolato nell’esercito russo, Nicolai Rayevski a 30 anni decide di uscire formalmente dall’esercito e di andare a Tashkent come volontario per dedicarsi, è scritto nei documenti di accredito, alle coltivazioni di cotone e vino. In realtà era un “Colonnello-spia”, arruolato dal Comitato panslavo Odessa, per combattere accanto ai fratelli slavi del sud contro il traballante Impero Ottomano. Il significato vero della sua missione si può ricavare dalle lettere che Rayevzki ha inviato al ministro della difesa serbo Milivoje Petrovic Blaznavac. Una era intitolata “Progetto di organizzazione della rivolta sulla penisola balcanica”. Con lui, in quell’anno in Serbia arrivano volontari da mezzo mondo, compresa l’Italia con i garibaldini al comando di Giuseppe Barbanti Brodano, e una lettera di sostegno al popolo serbo scritta da Giuseppe Garibaldi.

Dal porto fluviale di Belgrado a Kiev

Il colonnello Rayevski-Vronskj, ormai volontario nell’esercito serbo, combatte nella battaglia di Adrovac, primo settembre 1876, e muore ad Aleksinac, dopo essere riuscito a fermare l’avanzata di 60 mila soldati turchi. Con l’eroe rivissuto da Tolstoj, muoiono 9 mila serbi, 31 ufficiali russi, e 20 mila turchi. Il corpo del colonnello Rayevski è sepolto vicino al villaggio di Praskovacha, nel monastero di Santo Romano. Anni dopo, la zia russa chiede la restituzione del corpo, che dal porto fluviale di Belgrado arriva a Kiev. In Serbia, per accordo tra le parti o per leggenda, di Rayevski-Vronskj viene conservato il cuore, sul cui luogo di sepoltura è stata costruita la chiesa della Santa Trinità. Memoria di pochi, in Serbia, ma ancora memoria.

La strade del giornalismo

Per le strade del giornalismo, sempre meno intensamente frequentate, resistono ormai pochi maestri. Montanelli e Biagi se ne sono andati. Tra chi insiste c’è l’amico (spero di poterlo affermare) Bernardo Valli, di Repubblica. Nato nel 1930, i suoi anni li porta in giro per il mondo con energia, acume e curiosità. A Belgrado, ci siamo dedicati spesso ad un avanti-indietro per Knesa Mihailova tra distrazioni estetiche e ricordi. Con Valli abbiamo parlato anche di Tolstoj e del suo insistito richiamo panslavo con la Serbia. Tolstoj, confessiamolo, è stato una di quelle letture integrali che nella mia generazione ci si imponeva nel furore dei diciotto anni, libri che “dovevi aver letto”, assieme al Capitale di Marx e all’intera Bibbia. Non so se Valli il suo Tolstoj l’abbia assaggiato da giovane o digerito da adulto, ma resta il fatto che tanto riscoperto amore serbo verso la Russia lo definivamo assieme una sorta di balsamo sull’orgoglio ferito.

I serbi e la Madre Russia

Quando i serbi si sentono offesi o rifiutati dall’Occidente si rivolgono d’istinto verso la santa madre Russia, a cercare respiro ad est. Bernardo Valli a Tolstoj preferisce Milos Crnjanski, allievo serbo del maestro russo del ‘900. Crnjanski, in “Migrazioni”, manda il suo eroe alla corte della zarina per un incontro tanto agognato quanto impossibile. La genuflessione dovrebbe avvenire a Kiev, dove sta per recarsi in visita l’imperatrice. Il patriota serbo, convinto di avere esaudito il suo sogno di fedele suddito panslavo, si troverà invece a baciare il piede ad una prostituta travestita da sovrana. La beffa crudele degli amici russi. Anche da questo, le simpatie serbe verso le lontane cupole del Cremlino sono state sempre prudentemente tiepide. Più Tolstoj che Lenin a Belgrado, più la comune identità nella chiesa di Bisanzio che nel socialismo di Stato, sino a qualche decina d’anni addietro.

L’America di Bush, la Russia di Putin

Ho intravisto il neo presidente russo Medvdev nella sua visita di vigilia elettorale a Belgrado. Dichiarazioni blande allora le sue, tali da non sfondare neppure il muro telegiornalistico elettorale italiano nelle edizioni minori. Allo stesso Medvedev vengono attribuite anche più significative affermazioni ufficiose. Per la Russia di oggi, che non ha più un Romanoff o uno Eltsin al timone, una Serbia ricca in maniera alternativa ad una Unione sempre più atlantica costerebbe poco di più di qualche goccia di petrolio che scappa dai rubinetti siberiani o caucasici. L’America di Bush cerca di circondare la Russia di Putin e la Russia risponde.

L’informazione che cerca risposte

Su certi argomenti planetari, più che essere chiamato a dare informazioni, uno avrebbe bisogno di avere soprattutto delle risposte. Allora parlavo di Kosovo, 20 anni dopo mi arrovello sull’Ucraina e invidio a tanti/troppi che la risposta l’hanno già in tasca. Ma questa è riflessione/ricordo e non analisi di attualità. Torniamo quindi alla sfida Kosovo, in qualche modo indicativa. Un convegno Ispi, l’Istituto per la politica internazionale, nella sede della stampa estera a Roma, e tante esimie personalità accademiche, diplomatiche e politiche. Un ambasciatore al tavolo dei relatori (ne ometto il nome per sua tutela di carriera), alla domanda dal pubblico se la soluzione indipendenza Kosovo, il suo percorso, fosse la migliore scelta possibile, fornisce questa risposta.

“Se quella dell’indipendenza unilaterale sia stata la soluzione migliore o la sola possibile, non so dirlo. Certamente è stata fatta nel peggior modo possibile”. Amen

Il peggior modo possibile anche altrove.

Da:

21 Agosto 2022

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ENNIO REMONDINO

Giornalista prima nella carta stampata, poi 40 anni di radio televisione, per finire col web. Inviato speciale al Tg1 tra terrorismo, trame e mafia, corrispondente estero Rai per ‘Europa centro sud orientale’ con sedi successive a Belgrado, Gerusalemme, Berlino e Istanbul. Reporter nelle guerre balcaniche, dall’assedio di Sarajevo ai bombardamenti Nato sulla Jugoslavia per il Kosovo, in Iraq, Medio Oriente, Afghanistan. Ora, ‘diversamente giovane’, Remocontro.it per non perdere il vizio.