“GINETTACCIO”

DI MIMMO MIRARCHI

 

Lo chiamavano così, Ginettaccio, per quel carattere un po’ ruvido, che a fronte di problemi che investivano il suo sport si abbandonava a quella sua critica amara “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Era un toscano genuino e sincero il grande Gino Bartali, ciclista del Novecento, vincitore di numerose competizioni. Citiamo le più importanti: tre Giri d’Italia, due Tour de France, quattro Milano-Sanremo, tre Giri di Lombardia e tante altre corse. Fu grande avversario di Fausto Coppi, di cui era più vecchio di cinque anni, in una rivalità che divise l’Italia sportiva del secondo dopoguerra. Da sottolineare la sua vittoria al Tour de France del 1948, che contribuì ad allentare il clima di tensione sociale in Italia a seguito dell’attentato all’allora Segretario del partito comunista, Palmiro Togliatti.
Un vero campione, Bartali, non solo sulle strade del ciclismo ma anche nella vita.

Delle sue imprese sportive si sa tutto, ma poco si parla del suo impegno durante la seconda guerra mondiale in favore degli ebrei perseguitati dal nazi-fascismo. A Firenze, nei primi anni ’40 operava un’organizzazione umanitaria chiamata DELASEM, acronimo di Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, dedita a conferire agli italiani ebrei una nuova identità allo scopo di sottrarli alla deportazione nazista. La stamperia specializzata in documenti falsi si trovava ad Assisi e affinché le operazioni di stamperia potessero andare a buon fine occorrevano foto e notizie degli interessati. Si rese quindi necessario trovare un “corriere” insospettabile che trasportasse quei documenti dalla Toscana all’Umbria per consegnarle ai falsari. La scelta cadde su Gino Bartali, in ragione dell’allenamento giornaliero che il campione svolgeva sulle strade delle due regioni confinanti, attività che gli consentiva di passare, grazie alla sua notorietà, dai posti di blocco senza essere controllato. Fu il vescovo di Firenze Elia Della Costa, che aveva celebrato il suo matrimonio con Adriana Bani, a proporgli di prestarsi a nascondere nei tubolari della bicicletta quel prezioso quanto pericoloso materiale e portarlo tra Firenze e Assisi. Inutile dire che gli fu raccomandato di non confidarsi con nessuno, e allo scopo di proteggerli, neanche con i suoi familiari, perché ove mai fosse stato scoperto nessuno l’avrebbe salvato dalla fucilazione. Ma nonostante il pericolo, Ginettaccio accettò.

Accadde che un giorno il Reparto Servizi Speciali, comandato dal famigerato gerarca fascista Mario Carità, passato alla storia per la crudeltà dei suoi metodi di interrogatorio, aveva intercettato una lettera proveniente dal Vaticano indirizzata a Gino Bartali, con la quale la Santa Sede manifestava gratitudine per l’aiuto prestato. Il grande campione fu quindi convocato a “Villa Triste”, sede del RSS dove venivano condotti e interrogati esponenti antifascisti o semplici sospettati, i quali difficilmente si sottraevano a sevizie e violenze psicologiche al fine di carpire informazioni. Chi guidava gli interrogatori era quasi sempre lo stesso Carità coadiuvato nelle torture da un manipolo di aguzzini in camicia nera. Essendo a conoscenza delle efferatezze perpetrate nella triste dimora fiorentina di via Bolognese, Bartali ebbe paura e forse, sia pure per un solo momento, ebbe la tentazione di non presentarsi. Ma non poteva sottrarsi. A Firenze era conosciuto e in tanti sapevano dove abitava. E poi temeva di coinvolgere la moglie e il figlioletto Andrea.

– Allora, Bartali, ci dica, cosa ha fatto per meritarsi i ringraziamenti del Vaticano? ha trasportato armi da qualche parte? confessi! – intima il Carità.
Ma no, ho solo mandato caffè, farina e zucchero a chi ne aveva bisogno.
– E lei mi vuole far credere che il Vaticano si scomoda a scrivere una lettera per ringraziarla di aver mandato solo caffè, farina e zucchero?
Proprio così, è la verità, insiste Bartali.
Il crudele Carità gli si avvicina e fissa Bartali negli occhi. Il suo volto è un ghigno, il suo sguardo è quello di un serpente pronto a ghermire la preda. Poi gli fa:
– Va bene. Ora però la teniamo un po’ con noi in attesa di schiarirsi le idee. Portatelo in cella – ordina ai suoi scagnozzi.
Bartali viene portato negli scantinati della villa adibiti a prigioni. Qui vede vari strumenti di tortura. C’è anche un pianoforte che viene suonato per coprire le urla dei torturati. Resta in cella due giorni, poi viene ricondotto alla presenza di Carità, che questa volta è in compagnia di un uomo in divisa da ufficiale.
– Ecco il nostro campione. – fa l’aguzzino appena lo vede con il solito ghigno – Allora, caro Bartali, mi auguro per lei che la nostra ospitalità le sia servita a meditare sulle spiegazioni che ci deve. Le ripeto la domanda: cosa ha fatto per il Vaticano per meritarsi tanta gratitudine?
Ve l’ho già detto, portavo caffè, farina e zucchero a persone bisognose.
Carità perde la pazienza. Urla, gesticola, minaccia. Forse lo strattona anche. A quel punto l’ufficiale presente all’interrogatorio interviene:
Comandante, Bartali è stato al mio servizio come militare di leva. Per come lo conosco io è uno che ha detto sempre la verità. Se lui afferma che i ringraziamenti erano per l’aiuto che ha prestato ai bisognosi, dev’essere andata così. D’altronde non abbiamo nessun motivo per non credergli. Io direi di lasciarlo andare.

Il crudele gerarca era riluttante, ma quello che diceva l’ufficiale era da prendere in seria considerazione. Non c’erano prove per smentire il campione, né si poteva pensare si sottoporlo a torture per così poco. Bartali era troppo famoso e amato dalla gente. Che sarebbe accaduto in città se i suoi tifosi fossero venuti a conoscenza di maltrattamenti solo per una lettera di ringraziamento, per altro proveniente dal Vaticano? Mario Carità si rese conto che accanirsi contro di lui non era come farlo con uno qualsiasi e a malincuore si convinse a lasciarlo andare.

Gino Bartali non rivelò a nessuno di questo episodio e nemmeno parlò mai di tutta la vicenda degli aiuti a favore degli ebrei. Non lo fece neanche negli anni successivi a Liberazione avvenuta. Raccontò tutto a suo figlio Andrea in età molto avanzata, quando questi, venuto a conoscenza di alcune voci frammentate che menzionavano l’accaduto, cominciò a rivolgergli qualche domanda. Così, un po’ per volta, papà Gino gli riferì dei primi contatti col vescovo Della Costa, della stamperia di Assisi e di Villa Triste.
– Perché non ne hai parlato mai? Come altri, avresti meritato un encomio.
“Il bene si fa, ma non si dice, replicò Ginettaccio, certe medaglie si appendono all’anima, non alla giacca”.

Quando però il padre morì, nel maggio del 2000, Andrea per onorare la sua memoria decise di rendere pubblica quella storia, subito confermata da diversi testimoni dell’epoca che avevano ricevuto l’aiuto del campione.

Fu così che a Gino Bartali, Ginettaccio, furono riconosciute le giuste onorificenze. Nel 2005 gli fu conferita dall’allora Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, la Medaglia d’oro al merito civile, poi il 23 settembre 2013 venne dichiarato “Giusto tra le nazioni” dallo Yad Vashem, l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah con sede a Gerusalemme, e nel 2018 gli fu conferita la cittadinanza onoraria di Israele.

(L’interrogatorio a Gino Bartali qui riportato in corsivo è liberamente tratto dal libro “Abbiamo toccato le stelle – Storie di campioni che hanno cambiato il mondo” di Riccardo Gazzaniga edito da Rizzoli)

5 Luglio 2022