XENOFOBIA (sentimento di avversione generica e indiscriminata per gli stranieri)

DI MARIO PIAZZA

 

Sono sette i luoghi geografici dove la mia vita si è dipanata, sette città diversissime tra loro ma, con una sola eccezione, unite da quella malattia culturale che spinge noi umani a ritenere superiore la nostra comunità di appartenenza.
Un nemico o un avversario o perlomeno qualcuno da guardare con sospetto e malcelato disprezzo sembra essere una necessità biologica come bere, mangiare, dormire. A Milano erano i terroni, a Venezia quelli della terraferma, a Napoli “e cafune” dell’hinterland, a Catania i palermitani e i “babbi” messinesi, a Johannesburg i neri e i colorati, a Roma è addirittura la città a dividersi tra quelli di Roma nord e di Roma sud.
L’eccezione è Saigon, Ho Chi Minh City per i fanatici del politicamente corretto.
Da quelle parti chi tu sia, da dove tu venga o quanti soldi tu abbia in tasca non importa un fico a nessuno. C’è un sorriso per chiunque passeggi tra i suoi viali, dal turista impacciato al reduce vietcong, dal mussulmano d’ordinanza al monaco buddista, dalla sgallettata in cerca di occidentali alla vecchietta che vende il pho sui marciapiedi.
Sarà il comunismo, ma più probabilmente sono le cicatrici lasciate nella carne dei vietnamiti da una guerra civile che è costata loro quattro milioni di morti.
Quale che sia la ragione quel sorriso è contagioso più del covid, basta una settimana da quelle parti per rendersi conto di quanto la nostra ostilità verso i diversi sia la più stupida forma di autolesionismo che avremmo potuto inventarci.