IL LUNGO ADDIO DI BATTIATO

DI MARCO MOLENDINI

Battiato, l’uomo che cantava «scendo dentro un Oceano di silenzio», se ne va così, ai piedi dell’Etna ammutolito, portandosi via il buio della sua malattia. Se ne va, senza rammarichi («La dimensione spirituale ti conduce alla fine del Tutto. Al punto di non ritorno. E io non vedo l’ora», aveva dichiarato nell’ultima intervista). Se ne va con quella sua aria da filosofo orientale che vuole stupire e colpire la stupidità degli occidentali.

Se ne va, ma restano le sue canzoni, un catalogo pieno che respira intelligenza, vivacità, estrosità. Battiato con Dalla è stato il più originale dei cantautori e il più irregolare. Una pop star che detestava il pop e odiava essere star. Non amava le folle anche se radunava le folle come un guru con il popolo dei suoi fedeli. Amava la solitudine della sua casa di Milo con il silenzio rotto dai borbottii del vulcano. Amava i viaggi in Nepal alla ricerca della meditazione assoluta e di qualcosa che forse non ha mai trovato.

Era un quieto inquieto Franco, un essere speciale sensibile alle passioni e per questo pronto a scacciarle. Amava studiare, soprattutto i filosofi orientali, la mistica sufi, la meditazione. Forse gli sarebbe piaciuto fare il monaco, protetto da un monastero sperduto e circondato dai libri. Amava il teatro, la lirica, la pittura, il cinema. Per il cinema spesso ha continuato a far musica, ne aveva bisogno per mettere insieme i soldi che ci volevano per realizzare i suoi film. Con l’ultimo, Hendel, scritto, riscritto, sempre sull’orlo del cominciare a girare, ha perduto la battaglia. Solitario, delicato («cammino per strada facendo attenzione a non calpestare neppure le formiche»), geloso della propria intimità fino a celare brutalmente qualsiasi cedimento erotico o sentimentale.

Ma non era un uomo chiuso, amava l’amicizia e quella con Manlio Sgalambro ha segnato la sua maturità artistica come già era accaduto con Giusto Pio, con Giuni Russo, con Alice. La sua ironia siciliana lo trasformava in formidabile raccontatore di barzellette, era pronto a sorridere con il suo sorriso timido, una timidezza che diventava ritrosia. Complicato, ma anche semplice nel suo esser franco (destino di un nome), nel dire le cose in faccia con il loro nome come quando ha sparato in una sua canzone, Passacaglia, «Viviamo in un mondo orribile» o quando se l’è presa con il potere «di gente infame che non sa cos’è il pudore». Feroce e delicato allo stesso tempo con le sue magnifiche E ti vengo a cercare o Perduto amor (come il titolo del suo primo film), fino al capolavoro “La cura”.

Il mistero avvolge Battiato, che se ne è andato dopo aver imboccato il tunnel con una malattia su cui la famiglia ha fatto muro, inconsapevole o teatragona rispetto all’inevitabile clamore che il mistero sempre genere nei media. Ora l’attesa è finita, sappiamo che Battiato non ce l’ha fatta, sappiamo che resterà un marziano, oggetto non identificato della nostra musica popolare, un ribelle piovuto da Marte, con la sua aria svagata, audace nelle sperimentazioni e blasfemo nei temi che trattava con quel tanto di aria marziana che ha sempre fatto parte del suo carattere. E questa sua diversità, questo suo esser ritroso probabilmente è stata la molla dell’emotività collettiva, del clamore di un cordoglio nazionale condiviso: Franco non c’era più da qualche anno, ma solo ora se ne avverte pienamente la perdita.

Non canterà più, non griderà di nuovo “povera Patria”, non se la prenderà con gli imbecilli di “Up patriots to arm”, non proteggerà dalle paure e dalle ipocondrie la madre malata di Alzheimer, non incontrerà Igor Stravinsky sulla Prospettiva Nevsky, non proverà più a emanciparsi dall’incubo delle passioni.

Mi viene in mente la sorpresa di una sera, un concerto romano in cui mostrava chiari segni di stanchezza, perfino con cali di intonazione, lui con quella voce così sottilmente affinata. Erano i primi segni della malattia, probabilmente. Da quella sera, nell’estate del 2017 a Caracalla, non ho più sentito Franco, a novembre di quell’anno una brutta caduta con frattura del femore e del bacino lo costringeva a cancellare tutti gli appuntamenti: non è più tornato a cantare.

I suoi capolavori, le grandissime canzoni che ha scritto, sono destinate a tenerci compagnia, a ricordarci di un tempo di fantasia e ribellione. Come resterà quella prova da maestro assoluto dell’interpretazione che è stato il primo “Fleur”, un disco di canzoni del passato (da Trenet a De Andrè) reinventate con l’intensità del grande autore.

Ciao Franco chissà forse adesso il tuo desiderio è stato esaudito: «A me piacerebbe non essere in nessun tempo».