BULLISMO, VI RACCONTO UNA STORIA…

DI ANTONELLA PAVASILI

In Sicilia, tra gli anni ‘70 e i primi anni ‘80.

I ragazzi portavano i jeans a zampa d’elefante e le camicie a fiori.
I capelli andavano lunghi e lisci, con la riga in mezzo e una fascetta colorata sulla fronte.
E bisognava essere magri, magrissimi,
Era finita l’epoca in cui le forme abbondanti erano segno di benessere, bisognava esser magri come grissini.

In quel periodo avere tra i 12 e 15 anni, essere cicciottelli, avere un cespuglio di ricci corti in testa, non riuscire ad infilarsi dentro quei maledetti Levis, costringersi comunque ad infilarseli e sembrare uno sgraziato armadietto da bagno, era una sofferenza quasi fisica.
Se poi eri anche forte a scuola, se amavi leggere, se ti piaceva scrivere, se non brillavi in nessuno sport, era anche peggio.

Camminare in piazzetta e vedere i ragazzi sghignazzare e riderti dietro, vedere le altre ragazze, quelle magre e coi capelli lisci, guardarti con aria di superiorità, capire che anche gli insegnanti ridacchiavano di certi scherzi maligni, era un incubo.

Non si chiamavano bulli a quei tempi, ma erano loro.
Spietati, malvagi, omologati nei capelli, nei jeans e nella cattiveria.
Forti quando erano in gruppo e maledettamente subdoli quando erano da soli.
E ti imploravano di copiare un tema approfittando della tua solitudine e del bisogno di essere accettati.

Non si chiamavano bulli, ma erano loro.
Fighissimi, sempre alla moda, sul pezzo, adeguati.
Ammucchiati sul muretto consumavano pomeriggi spruzzando maldicenza e sale sulle ferite di chi i capelli li aveva crespi.
Le loro famiglie non sapevano, non vedevano o forse, anche peggio, ridacchiavano con loro.

Era dura resistere, sopravvivere.
Ma a volte si riusciva.
Nascosti nei maglioni larghi, nella cameretta piena di libri, nello sguardo di genitori spesso inconsapevoli ma attenti a non far mai mancare la loro presenza.
Imparando ad ignorarli.
Loro, quelli che non si chiamavano bulli, ma lo erano.

Poi il tempo che passa, le mode che cambiano, i jeans che ti entrano, i ricci che vanno benissimo.
E quei libri, nemici che ti salvano.
Perché costruiscono barriere invisibili di conoscenza e sapere.

E la scena che potrebbe capovolgersi.
Ma non succede.
Perché dentro rimane sempre quell’amaro sottile, quel filo di tenerezza per quei ricci crespi, quella lieve pietà per il vuoto esibito sul muretto.
È andata bene.

Ma potrebbe non andar bene nel 2021.
Perché loro, i bulli che adesso si chiamavano bulli e lo sono, stanno ancora sul muretto.
Un muretto di vetro, una tastiera e il veleno sui polpastrelli.
I gruppi whatsapp e la loro debolezza veicolata col tasto condividi.

E famiglie distratte.
Da social, lavoro, preoccupazioni.
E insegnanti che hanno smarrito la capacità di leggere dentro gli occhi atterriti di ragazzini disperati.
E camerette senza libri che possano costruire barriere.
E lacrime amare di paura e sgomento.

Nella selva oscura di un mondo finto e pericolosissimo.
Quello del bullismo e del cyberbullismo.
Che se pure ti salvi, ti lascia dentro macerie molto più dolorose di quanto accadeva 40 anni fa.
In tempi in cui tornando a casa riuscivi a sentirti al sicuro.
E adesso?

Chiediamocelo.
Ogni giorno e oggi, nella giornata contro il bullismo ancora di più.
Pensiamoci e guardiamo negli occhi i nostri ragazzi.
E proviamo a salvarli.
Anche loro, quelli che adesso si chiamano bulli e lo sono.
Perché un bullo ha bisogno d’aiuto quanto le sue vittime.
Forse anche un po’ di più…

P.S.: quella ragazzina coi ricci crespi che coi maledetti jeans a zampa d’elefante sembrava un armadietto sgraziato ero io.
Sono stata fortunata.
Mi hanno salvata l’amore dei miei genitori e i miei libri.
Ma un filo d’amaro è rimasto.
Quel filo che mi fa andare fuori di testa quando vedo un’ingiustizia.
Quel filo che oggi, per scrivere queste righe, ho deciso di spezzare.
Perché nulla è come appare.

Mai ❤️