CONTE LI CHIAMA “ULTIMATUM” QUELLI CHE INVECE SONO RICATTI

 

DI VINCENZO G. PALIOTTI

Conferenza stampa di fine anno del Premier Giuseppe Conte, presenti i rappresentanti dei media nazionali, qualcuno lo incalza facendo riferimento alle “elucubrazioni” di Renzi che un giorno si e uno no minaccia, proprio così, di abbandonare il governo con le conseguenze catastrofiche che ogni cittadino responsabile, dato il momento difficilissimo sta attraversando il Paese, ritiene un ulteriore danno, il colpo finale cioè per precipitare nel baratro.

Conte cita Moro: “Ultimatum non mi appartengono, sono per dialogo. Gli ultimatum che non appartengono al mio bagaglio culturale e politico. Nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Dc nel febbraio 1978, Moro disse che gli ultimatum non sono ammissibili in politica perché portano a un precipitare delle cose e a impedire di raggiungere una soluzione positiva. Io sono fuori dalla logica degli ultimatum per attitudine personale, culturale e politica. Io sono per il dialogo e confronto e trovare una sintesi superiore per il bene del Paese”.

Una risposta elegante, logica e soprattutto sensata che evidenzia chi tra i due fa politica per sé, per raggiungere il potere, in questo caso di recuperare il potere perso, e chi per il bene comune. Una risposta che chiarisce, a chi non è ancora chiaro, quanto sia inadeguato il modo di far politica dell’ex presidente del consiglio che, tra l’altro, e dall’alto del suo 2,8% di gradimento aggiunge alla lunga lista di contraddizioni, di incoerenze quella che il nostro twittava il 31 Maggio 2017: “Non è accettabile che nel 2017 ci siano ancora i piccoli partiti che mettono i veti #portaaporta”.

E’ possibile, anzi probabile, poi che gli ultimatum, o ricatti che sono comunque degli atti di forza e quindi non proprio esemplari, non avendo un fondamento, una sostanza, siano destinati a fallire, seguendo lo stesso destino che ormai da tempo accompagna chi si è reso autore di quelli espressi già da quando questo governo è in carica.

Il solo timore che rimane è che viviamo in un Paese che riserva sempre sorprese, anche le più inaspettate come quella di chi plaudendo alla visita nel carcere di Rebibbia di alcuni politici all’ex senatore Verdini, confonde il termine pregiudicato con prigioniero, alla stessa stregua di chi, a suo tempo, chiamava esule un pregiudicato-latitante sfuggito al carcere sentenziato in Cassazione, cioè nel terzo e definitivo grado di giudizio.